Tre per cinque: nel bel mezzo dei Sentieri Selvaggi

In Musica

Marco Ghirardini, Piercarlo Sacco e Andrea Rebaudengo nel terzo concerto all’Elfo Puccini della stagione di Sentieri Selvaggi si sono esibiti mettendo insieme i grandi del secolo scorso (Milhaud, Berg, Bartòk, Stravinskij) e il contemporaneo Marcello Panni. Un bellissimo programma di tradizione che non tradisce il Dna di questi straordinari musicisti

Sentieri Selvaggi, si dovrebbe sapere, nascono vent’anni fa come un gruppo di musicisti (compositori e interpreti) riuniti un po’ per gioco sul titolo di un leggendario western e sull’esperienza di una trasmissione radiofonica di Radio Popolare. Soprattutto sono un’idea di far musica quasi sempre fuori pista, dove nessuno ieri e pochi ancor oggi hanno voglia di andare perché è più comodo prendere il sole nei soliti posti, stessa spiaggia stesso mare.

Ma sono passati vent’anni e anche il Dna (titolo della stagione in corso, fino al 27 maggio, al Teatro Elfo Puccini) accetta qualche correzione dalla vita. I ragazzi sono cresciuti, hanno seguito strade diverse, hanno alimentato ottimi ricambi e i Sentieri di oggi non hanno più bisogno di dimostrare niente, né di essere sempre cavalli pazzi. Anche perché la musica cui hanno aperto le porte si è infilata in molte stanze chiuse e odorose di muffa.

Vent’anni dopo, i Sentieri selvaggi si concedono di mostrare quel che conta: saper suonare bene, molto bene, anche la musica del secolo passato. Evidente lo scarto, o lo scatto, nel terzo dei sette concerti di stagione (a lunedì alterni, nella Sala Fassbinder), che col titolo Tre per cinque ha messo in chiaro quanto la storia abbia arricchito la provocazione delle origini.

I tre sono il clarinetto matto di Mirco Ghirardini, il violino sensitivo di Piercarlo Sacco, il pianoforte sicuro e puntuale di Andrea Rebaudengo. I cinque sono Darius Milhaud, Alban Berg, Béla Bartòk, Igor Stravinskij e, al centro, Marcello Panni. Oltre che bravi nei titoli, i Sentieri Selvaggi, qui lasciati ovviamente a briglia sciolta da Carlo Boccadoro, dimostrano di saper congegnare anche un bellissimo programma “di tradizione” senza tradire il loro Dna.

Mirco Ghirardini © Giovanni Daniotti

Il Milhaud della Suite op. 157b è il musicista eccentrico e giocoso, baciato dal dono della melodia, che non sarebbe rimasto neppure un’ora nella cella in cui Battiato si augurava di rinchiudere un compositore contemporaneo finché non fosse riuscito a scrivere un tema di successo. Il Berg dell’Adagio, ridotto dallo strumentale esteso del sublime Kammerkonzert, è il maestro di sintesi stilistiche e di allusioni tonali, fuori dalla tonalità, che amiamo senza se e senza ma. Il Bartòk dei Contrasts (all’americana) è il giocoliere di timbri ed eco popolari che rispose alla commissione del jazzman Benny Goodman con una padronanza delle materie “altre” che ancora ci stupisce, ottant’anni dopo. Lo Stravinskij che miniaturizza, ma neanche molto, i temi più geniali de L’Histoire du soldat (il più vecchio dei pezzi, 1919) è il maestro che Adorno non riuscì proprio a immaginare quanto sarebbe stato imitato, a differenza dell’altro. E anche Marcello Panni non sfigurava tra questi compagni con il suo Mishima Trio, che pure concentra in una suite i materiali dell’operina Hanjo, scritta a ridosso delle pulsioni tragiche di un uomo destinato a consumare per mano propria il senso assurdo dell’esistenza su cui aveva scritto.

Fa riflettere come ci arrivino con soddisfazione intatta questi quattro pezzi che più storici non si potrebbe, scritti fra gli ottanta e i cento anni fa, in quell’interregno ‘19-39 che il teorico della storia moderna Eric Hobsbawm giudicò talmente schiacciato da poter considerare le due guerre come una sola e il secolo, di conseguenza, terribilmente “breve”. Nessuno di questi pezzi evoca la tragedia già vissuta e quella che stava per compiersi. Tutti esibiscono l’irriverenza e il senso del paradosso che l’estetica del Novecento indossò presto come pelle su pelle. Tutti giocano con uno degli strumenti “nuovi”, il clarinetto, che Mozart ebbe appena il tempo di assaggiare e che il Novecento sfruttò come pochi. Tutti maneggiano quel mélange violino-clarinetto, sopra l’ossatura ritmica del pianoforte, con un piacere quasi sensuale per il contrasto tra voci di ieri e di oggi.

Sono caratteri ma anche metri che i cavalieri di Sentieri Selvaggi adottano nel scegliere o farsi scegliere dalle musiche del cosiddetto nostro tempo. E che i tre dell’altra sera – ripetiamo: Ghirardini al clarinetto, Rebaudengo al pianoforte, Sacco al violino –, “riconoscono” al primo sguardo. Anche meglio di altri, proprio perché, come osservava Boulez, ci arrivano dalla pratica della musica che è venuta dopo.