Marginalità e mitologia in “Salvare le ossa”

In Letteratura

“Salvare le ossa” di Jesmyn Ward è un romanzo che attraverso il racconto della devastazione portata dall’uragano Katrina mette in scena il problema della marginalità e della povertà nella comunità nera di Bois Sauvage.

Uno dei testi che compongono Citizen, capolavoro di Claudia Rankine, descrive, attraverso il collage di frasi raccolte dalla CNN, la devastazione lasciata dall’uragano Katrina, con i corpi delle persone ammassati come macerie e detriti, creando un’immagine che ricorda molto da vicino il quadro La nave negriera di William Turner. Non a caso: il quadro di Turner rappresenta il massacro di Zong del 1781, durante il quale cento schiavi neri furono buttati in mare e dati in pasto ai pesci per motivi assicurativi. Attraverso il riferimento all’immagine, Rankine vuole sottolineare il trattamento mediatico e politico dei corpi dei poveri e soprattutto dei corpi dei neri. Anche Dave Eggers in Zeitoun mette al centro della sua ricostruzione dell’uragano Katrina l’esperienza di un uomo non bianco che solamente in virtù del colore della sua pelle viene arrestato, perde i contatti con la sua famiglia, viene trattato come se fosse un terrorista e teme che la situazione possa degenerare come a Guantanamo. Il racconto dell’esperienza traumatica della catastrofe è usata dai due autori per iniziare un discorso sul come, anche di fronte a un cataclisma, il razzismo, endemico nella società americana, marca una differenza nelle vittime: non si è uguali, sembrano suggerire Rankine e Eggers, nemmeno di fronte alla morte.

L’esperienza di corpi marginalizzati durante Katrina è al centro anche del secondo romanzo di Jesmyn Ward, Salvare le ossa, appena uscito in Italia per i tipi di NNE. Il libro di Ward racconta dodici giorni di una poverissima famiglia afroamericana prima e dopo l’arrivo dell’uragano; tutto è filtrato dagli occhi e dalla voce della quindicenne Esch, unica donna del romanzo, che racconta la sua vita, quella dei tre fratelli e del padre alcolizzato, in una condizione di totale marginalità e indigenza («quel cesso di posto che era la Fossa, dove tutto il resto lotta con le unghie e con i denti per non morire di fame») in cui la vita è piuttosto una lotta per la sopravvivenza. La voce della narratrice restituisce quei dodici giorni con un’immediatezza percettiva resa con il racconto al presente che spesso, però, si perde nella divagazione sul passato senza soluzione di continuità.

Il mondo verbalizzato da Esch non è ancora concettualizzato, spesso è prerazionale: il diluvio di similitudini che ritmano il testo riportano l’esperienza della giovane narratrice su un piano di conoscenza sensibile, che è soprattutto quella del tatto e dell’odorato. Salvare le ossa è un romanzo di forti sensazioni tattili e olfattive: il mondo raccontato da Esch è estremamente concreto nella sua materialità, è un mondo spesso «ispido» e melmoso, conosciuto con il corpo e non con la ragione («sono i corpi a raccontare le storie»): il corpo bruciato dal sole, madido di sudore, un corpo sporco, spesso puzzolente, nauseato, ma anche estremamente vitale. Un corpo violato: «Era più facile lasciarlo fare che chiedergli di smetterla, più facile lasciarlo entrare che spingerlo via, più facile che sentirlo chiedere: Perché no? Era più facile stare zitta e sopportare che dargli una risposta». Un corpo invisibile («Potrei essere Euridice che attraversa gli inferi prima di svanire, senza essere vista da nessuno») che chiede di essere visto e riconosciuto dal ragazzo di cui è innamorata, ma anche un corpo che non vuole essere visto e vuole nascondere la propria gravidanza sulla quale non ha nessun controllo: come sottolinea la stessa Ward in un’intervista rilasciata a Bomb Magazine è quasi impossibile abortire in Mississippi, specialmente per un’adolescente senza soldi che vive in un’area rurale. L’insistenza sulla propria visibilità è anche un modo, per la narratrice, conscia della propria condizione di marginalità (in quanto donna, nera e povera), di provare a capire il proprio posto nel mondo, di riflettere sulla propria identità.

Accanto a questo tipo di conoscenza materiale, la voce narrante ne sfrutta anche un’altra di tipo mitologico: la narrazione è infatti scandita non solo da frequenti rimandi alla mitologia classica, ma presiede alla sua genesi un principio strutturante basata sulla reiterazione di alcune immagini che assumono valore archetipico e convergono sulla figura della madre e su quella dell’acqua. La maternità è uno dei cardini su cui si impernia la narrazione cui si allude continuamente attraverso il ritornarne incessante di alcune immagini (le uova, i semi) ed è trattata in maniera assolutamente ambigua: si oscilla continuamente fra il polo positivo della madre nutrice e della matrigna che uccide i propri figli; è lo stesso concetto di maternità a essere vissuto come ambivalente: da un lato è l’elemento in cui si trova forza per andare avanti, per combattere, dall’altro è una condanna, una maledizione che porta solo morte e distruzione. Non è un caso che sia proprio il mito di Medea a strutturare il racconto, alla maniera dei modernisti inglesi e americani, e si incarna nel cane China, in Esch e nell’uragano Katrina, «la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte». L’arrivo della tempesta è descritto proprio come l’arrivo del carro di Medea trainato dai draghi e diventa l’epitome del principio generativo e insieme distruttivo della madre che trova il suo speculare nell’acqua, simbolo archetipico di vita, morte e rigenerazione. Come nella sezione Morte per acqua de La terra desolata di Eliot, l’acqua è trattata ambiguamente come una minaccia (è in acqua che Esch viene respinta dal suo Giasone) che porta morte, ma che potrebbe prevedere la possibilità di una rinascita: «La madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lasciati vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati di sole. Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo».

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