Teoria e pratica dell’umanità che legge. Una cronaca dal Salone del Libro.

In Letteratura

Dal maratoneta degli autografi all’esperta delle pubblicazioni minori, passando per acquisti compulsivi e un numero impressionante di mani strette e titoli da scambiarsi in coda. Un reportage dal Salone del libro di Torino: visto dalle file, dai riti, dalle platee, dai gesti di complicità, dai firmacopie. Dalla condivisione – tutta umana – delle storie. Lì dove l’entusiasmo, per duecentotrentamila volte almeno, permette a sconosciuti e sconosciute di sorridersi, e sentirsi vicini.

Duecentotrentunomila e passa.
Quanto fanno duecentotrentunomila e passa corpi che attraversano gli stessi spazi, che si danno appuntamento, che si incontrano (di anno in anno, ma anche senza essersi mai visti prima di persona), che si convogliano nel medesimo luogo con la medesima intenzione?
Fanno un fiume, un rumore ininterrotto, un concentrato di calore, una moltitudine di teste, di mani, di cervelli, di pensieri. Di intuizioni.

A tanto ammonta il risultato del Salone del Libro di Torino.
E sì, certo: si farebbe presto a inquadrare tutta la faccenda dal facile punto di vista della nuda cifra da competizione, dell’incremento ennesimo – con tutta la trionfale retorica del record che ne va dietro, e che tanto piace a questa epoca sgraziata.
Però, invece, restiamo per una volta sulle parole: perché quello che succede a Torino (e poi viene moltiplicato in tanti Festival grandi e piccoli della nostra Penisola) è prima di tutto questo. Un risultato.

Lo è, in tempo di smaterializzazione, la volontà – una volontà collettiva – di ritrovarsi nello stesso tempo e nello stesso luogo a scambiarsi, e a creare, narrazioni.
Lo è, anche omeopaticamente, e a lungo rilascio, quando il passo viene sbarrato da file di bambini per mano ai genitori, condotti da genitori, seduti assieme ai genitori in un caos fibrillante. Perché il Salone del Libro è anche questo: è comunque una festa. È comunque una possibilità per il domani, quando, sedimentata, la giornata sarà stata trasformata in ricordo, in emozione, in avventura – in: condivisione.

La condivisione, appunto. Che significa la possibilità di essere comunità, e di esserlo dentro il territorio dell’immaginario: quanti altri spazi esistono, oggi, per questo? (esistono davvero, altri spazi?).
Leggendo e ascoltando le voci della stanchezza, della polemica, del perenne però, della scontentezza viene da soppesarlo, questo scarto di prospettiva tra punti di vista.
Si legge che la bastiancontrarite da Salone è un genere di elzeviro a sé, che vanta una lunga tradizione e molte varianti.
I nuclei tematici dell’edizione 2025, (la seconda affidata alla direzione artistica di Annalena Benini), camminano in sostanza su quattro filoni.

Il primo è la presenza-legittimazione del romance che ha fatto storcere la bocca ai detrattori del genere (possibile che nessuno si ricordi, in tempi non poi così preistorici, il fenomeno dei romanzi Delly? e la consistenza del mercato degli Harmony in oculate sfumature di rosa? Ovvero, la domanda è: si riuscirà mai a superare il paternalismo giudicante di chi si sente in dovere di “mettere a posto” le lettrici giovani, ricordando loro che questa mica è letteratura – e però, santa pace, il desiderio di leggere oggi è o no una possibilità di continuare a coltivare la lettura anche domani? Senza parlare dell’estetica libresca che il romance ha in qualche modo inaugurato: e se adesso ti innamori di un oggetto, perché non dovrebbe questo allevarti nel futuro al gusto della buona carta, del buon impaginato, del buon carattere, della buona cura di un libro?).

Il secondo argomento di controversia è lo spazio dato alle auto-pubblicazioni, che ha fatto storcere il naso ai vari che brandiscono gli impietosi dati del calo delle vendite, dell’abnormità del numero di titoli che si producono mensilmente, eccetera. Tuttavia, si può ragionare sul fenomeno anche in modo differente, come ricorda Loredana Lipperini qui; e se si ha un po’ di memoria, si potrebbe anche ricordare il caso paradigmatico di Gian Marco Griffi, finito nella dozzina dello Strega dell’anno passato dopo un esordio – ma guarda un po’! – proprio nei ranghi di una pubblicazione tramite crowdfunding.

Il terzo grado dello scontento è la collocazione dell’usato all’ingresso, nel padiglione di apertura; in questo caso a farsi storcere lo stomaco sono stati i piccoli editori, già preventivamente gravati e in affanno sulle crocette del venduto effettivo. E qui varrebbe la pena di guardare seriamente la faccenda dal punto di vista del sistema, cioè del valore della lettura come sintomo di una società. Se le tasche degli italiani e delle italiane sono più vuote, è evidente in che rischio possa incappare il piacere della lettura. Da vitale a rinunciabile, da democratico a esclusivo. Un tema che va inevitabilmente a braccetto con la pratica della comprensione non solo del testo, ma anche della complessità dei tempi in cui viviamo. Che si stia scivolando (che ampi pezzi del corpo sociale stiano scivolando) nella rinuncia, o nell’indifferenza, quando non nell’astio istituzionale, è purtroppo cosa nota. Come si reagisce? Qualcosa vorrà pur dire, per esempio, la recentissima fulminante scalata di massa alle categorie di vendita di libri usati in offerta su Vinted. La disponibilità economica del pubblico, i costi, il posizionamento della lettura tra i beni del paniere di una civiltà sono una questione che dovrebbe toccare non soltanto la piccola e media editoria, ma l’intero settore. Politica inclusa, ovviamente.

E infine, c’è la quarta casistica della lamentazione – quella forse più preoccupante, poiché endemica – che è quella del disamore.
Qui il fronte è capitanato da Andrea Colamedici, che nella newsletter di Tlon parla di depressione intellettuale e di Grande Stanchezza: una sottile malattia che abiterebbe il Salone sottotraccia, poiché la montagna di parole prodotta negli ultimi decenni sembra non aver spostato di un millimetro il corso degli eventi.
Su questo si sono già spese roventi pagine nella più tradizionale e appassionata pratica dello Stivale (ovvero la divisione, il guelfoghibellinismo, con dovizia di correnti sottoposte e ulteriori). E forse Colamedici ha proprio ragione: c’è stanchezza. Una stanchezza di prospettiva. Di una certa prospettiva, per lo meno.

Paragonare il Salone a un rito al quale non si crede più del tutto, o non più abbastanza, tuttavia, significa doversi anche prendere qualche responsabilità in proiezione.
Perché sono proprio i riti che costituiscono i cardini di riconoscimento di una società: contribuire a farli cadere ritirandosi in qualche dorato Aventino può anche essere una tentazione forte. Soprattutto perché sono anni (decenni) che l’intellettuale militante è specie considerata in via d’estinzione, dopo essere stata bollata a lungo come radioattiva – e l’impegno ha a che fare con la collettività, con lo stare nella collettività. Non proprio facile, considerando il vento individualistico dentro cui si respira da quasi mezzo secolo.

Non è male, invece, mettersi in coda, al Salone. È dentro la coda (qualsiasi essa sia: per il panino, per il bagno, per la presentazione, per il firmacopie, per l’acqua, per tutto) che si fa esperimento di una prospettiva molto diversa. Si vedono correre gli uffici stampa dietro agli scrittori bizzosi (esistono, anche se è un genere di cui non piace molto parlare nella Repubblica delle Lettere), fare da scudi umani agli entusiasmi debordanti del pubblico nei confronti del nome atteso che si fa epifania vivente, e sorridere mentre consumano tacchi e chilometri tra raffiche di messaggi, ritardi improvvisi e scalette rigidissime.

Non è male camminare in coda tra gli stand, e vedere tutte insieme le copertine delle storie divise per editore trasformarsi nelle tessere di un arazzo che ha logiche, caratteristiche e seduzioni peculiari.
Perché, a proposito di riti, il Salone è anche una specie di secondo Natale delle case editrici, e può capitare, chiacchierando con chi i libri li fa e gli autori li crea, che ci scappi qualche ragionamento di grande onestà. Per esempio:
«Ma è vero che il vostro XXX è passato a YYY?»
«Sì»
«E?»
«Ed è giusto così: noi li accompagniamo fin dove possiamo. Ma poi serve un passo più lungo. Devono andare» (qui l’editore sorride serenamente).

In coda può accadere che un perfetto sconosciuto vada a prenderti un caffè solidale, che una perfetta sconosciuta ti lasci la borsa garantita da un gruppo (di altrettanto perfetti sconosciuti, in coda pure loro) per il tempo della migrazione in altra adiacente coda di necessità vitale (il bagno, l’acqua, il figlio o la figlia da recuperare al volo).
In coda ci si scambiano consigli tra sconosciuti, con l’entusiasmo e la curiosità di chi non si vedrà magari più, ma ha la voglia di farsi un giro approfondito negli scaffali altrui: scattano le note sugli smartphone, e i “ce l’ho/mi manca” che pare di essere appena usciti dal tempo delle figurine Panini.

Si sente questa famosa stanchezza di cui sopra, in coda?

Si direbbe piuttosto che si vedono la tempra e la sagacia di chi mette a frutto anni di esperienza in rituali accorti di sopravvivenza, al fine di raggiungere tabelle oculate di appuntamenti irrinunciabili che si sono costruite ragionando nelle proprie case, settimane e mesi prima (c’è sempre un Salone, prima del Salone).
E quando, dopo un’ora in piedi (e svariati scambi di titoli reciprocamente consigliati) la sala è raggiunta, e il posto a sedere pure, la concentrazione di questi lettori e di queste lettrici è tale che anche il marasma più concitato che scorre appena un cartongesso più in là scema rispetto al piacere di ascoltare.

In fondo è questo, no?, l’alchimia della scrittura: lo afferma Andrea Bajani in una sala stracarica e attentissima nell’ora di punta del sabato:

“C’è una cosa che succede quando un lettore, leggendo, dice: questo sono io – e non: questo sei tu. Un punto in cui ci incontriamo. I Greci la chiamavano parresía: il tipo di verità che comporta un rischio”

Segue firmacopie chilometrico (un articolo su L’anniversario, il libro di Andrea Bajani candidato al Premio Strega di quest’anno si trova qui).

Si fa esperienza, in coda, di una particolare forma di rapporto umano: un legame solidale, una complicità implicita. Qualcosa che milioni di zoom e di meet ci hanno fatto un poco dimenticare, perché la pratica dello spazio fisico condiviso dentro ai propri corpi, alla sola distanza di una espressione, è qualcosa che allena alla contiguità, e predispone allo scambio degli immaginari.

Suona strano, allora, quando dal palco chi presenta un libro ti dice (a te, che hai fatto una fila eterna di anticamera) che è contrario alla presentazione dei libri – fortuna che c’è l’autore, che salva le sorti della faccenda. Si è lì per l’autore, no? Eppure, che brutto servizio, questo, per il mestiere del presentare.
E suona fuori luogo quando sul palco, più che a una presentazione, sembra di assistere a una chiacchierata tra amici, che finisce per escludere il pubblico (poi non si vende una copia, o in numero scarso: e allora, anche qui, è sempre una questione di prospettiva…).

Però.

Però appena si rimette piede nei corridoi degli stand, e si viene travolti da banchi di ragazzine e ragazzini con le spalle piene di borse di libri e la scritta leggere può creare indipendenza, beh: ci si schiaccia la stanchezza ben in fondo le tasche, e si ignora bellamente il male ai piedi.


Del resto, questa del Salone è una maratona condivisa: a qualunque ora si passi davanti alla Bao Publishing, infatti, c’è la consolante e ammirevole certezza di trovare sempre, pazientemente, umanamente, Zerocalcare che firma – copia per copia, sguardo per sguardo, per ore e ore e ore e ore.

Ed è dalla coda infinita dopo l’incontro con Nicoletta Verna che si percepisce cos’è questa aria di legante umano.
«Volevo dirle grazie di persona per avere scritto un libro così» dice di getto una signora, una delle ultime, che ha aspettato fino alla fine il suo turno. L’accompagna una figlia, o forse una nipote, e mentre affida la sua copia all’autrice si commuove: «Per me è stato importante» mormora.

(Una recensione a I giorni di Vetro di Nicoletta Verna si trova qui).

A pensare che tutto questo (le migliaia di persone, i chilometri di consigli di lettura, il sorridersi tra sconosciuti, gli scambi di opinioni spontanei, gli abbracci) è tutto mosso dai libri, personalmente fa ancora, in questi tempi di resa e capitomboli, una certa preziosa, insostituibile, piena impressione.

Le immagini di questo reportage dal Salone del Libro sono del fotografo Alberto Bogo.

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