È il 1990, la periferia di montagna è un luogo ultimo. Sulle carte geografiche è un pezzo di Lombardia, nella realtà una zona grigia dove si mescolano esiliati e dimenticati, beghine che raccomandano l’anima e dannati interessati a non farsi intercettare. Nel giro di vent’anni un gruppo di ragazzini fa esperienza del Male e della perdita, abbandona la terra che li ha visti diventare adulti e infine si ritrova per un’ultima, necessaria, resa dei conti. Un romanzo sorprendente e perturbante.
Ci sarebbe stato molto bene nella dozzina del Premio Strega, Spettri Diavoli Cristi Noi, il libro di Riccardo Ielmini, vincitore dell’edizione zero del Premio Neo, bandito lo scorso anno dall’omonima casa editrice che di recente l’ha pubblicato.
Ci sarebbe stato bene perché è un romanzo impetuoso e singolare, scritto senza lesinare sui registri: colto ma mai allontanante, grottesco con smarginamenti nella tenerezza, onirico benché ancorato alla profonda provincia italiana dove in apparenza mai nulla accade (attenzione: in apparenza, appunto…), a tratti gotico. Perfino mistico.
Bastano le prime venti pagine (un unico, mirabolante fiato) per tirare dentro chi legge in un universo pulsante di sottintesi ed emersioni, sguardi di sbieco e silenzi capaci di soffocare.

Ogni cosa, in questa storia, ha una sua vita segreta, brulica di inquietudini e tensione. Tant’è che, a un certo punto, è la terra stessa a voler prendere parola.
E il Recitativo della Contea così comincia:
“Io amo i figli straziati da pestilenze nell’antico lazzaretto, perduti in guerre lontane, spazzati via da epidemie contadine e dalla silicosi per le polveri nelle vecchie manifatture. Li amo e li custodisco mentre riposano dentro il mio gigantesco ventre sotterraneo, mentre il soffio della Storia lambisce da millemila tempi la mia carcassa poggiata sul solco abbandonato di un ghiacciaio. Questo è il mio Nord, dove il gelo ancora striscia come una memoria negli inverni grigiazzurri, vuoti e silenziosi. La Storia ha soffiato su di me l’alfabeto intero del dolore, e ancora più dolore mi aspetta, perché io non conosco la mia fine, questo è il patimento che si staglia sul lungo orizzonte della mia tempra esausta”
Concepito come un viaggio negli abissi dell’animo umano e, contemporaneamente, strutturato come uno stralunato romanzo di formazione (e di sopravvivenza), Spettri Diavoli Cristi Noi è ambientato in una non specificata periferia della montagna lombarda, dove un gruppo di ragazzini sfreccia spavaldo in groppa alle proprie intrepide bmx, lanciandosi per sentieri e viuzze sotto l’occhio perennemente giudicante di beghine e umanità varia, sempre piuttosto male in arnese.
L’esercizio della ribellione della piccola ghenga (Fredy, Accio, Bardo, Frida e Dambro, la voce recitante e l’aedo di questa epopea del profondo Nord) si misura con imprese sempre spropositate, perché inattesa, spropositata e caustica, è la rivelazione che emana dai personaggi che incontrano nelle loro scorribande. Le vecchie beghine predicano di temere il Diavolo, che ben si è insediato, in mille varianti, in quel luogo dimenticato dalle grandi bisettrici dell’attenzione dello Stato; e, in effetti, anche a volerle sconfessare come bislacche, o esagerate, le loro predizioni del Male sono sempre più pittoresche e benevole rispetto a quello che occorre, in realtà, nella vita di chi abita tra le pieghe di quella terra dimenticata, fatta di boschi, massi erratici, case sparse, solitudini profonde.
Siamo nel 1990 e l’immaginario è tutto imbevuto di riferimenti che appartengono al decennio precedente, ma è presto evidente che vivere in un luogo perduto richiede di confrontarsi con il senso di una minaccia perenne – e così nessun adulto riesce a incarnare una parte rassicurante. L’effetto, man mano che il tessuto dei personaggi compone la scena collettiva, è quello di ritrovarsi di fronte a un Bruegel narrativo: festoso e smargiasso finché, avvicinandosi, non si cominciano a notare i particolari inquietanti e abnormi disseminati con arte nei margini di una espressione, o nei dettagli di un contesto.
Che qualcosa stia per succedere, che il tempo sarà attraversato da una faglia che segnerà un prima e un poi è più di un sospetto, tanto che il tono del racconto, quando si fa più teso, riecheggia un dramma destinato a chiudere definitivamente un’epoca (quasi una sorta di post-millenarismo):
“Avvenne nel cuore dell’estate del 1990 dell’era cristiana, l’ultima stagione prima che i ragazzini iniziassero l’inesorabile discesa nel baratro dell’età adulta. Avvenne in quell’anno, il primo dopo che il Grande Muro era stato abbattuto.
Gli abitanti della Contea-provincia dell’impero occidentale sentivano scuotersi le terre e credevano che libertà e uguaglianza e fratellanza avrebbero finalmente ridisegnato il pianeta, inconsapevoli che oltre il Grande Muro sarebbe dilagata a scintilla l’età di Mammona, il grande Dio Denaro”.
Come il mondo inizia una spirale di non ritorno, così le vite dei ragazzini, che si dicono Confraternita, diventano autrici e protagoniste di una collettiva commedia divina, compiendo una discesa nei gironi infernali del loro presente.
Caronte, Minosse e Cerbero hanno facce che si incontrano al supermarket: sono i custodi di demoni personali e di storie dannate. Ladri, suicidi, ignavi, abusanti e mistici deviati riempiono le stazioni della catabasi inarrestabile e abnorme che attrae e lambisce i destini dei ragazzi, fino a raggiungere la Caina dei fraudolenti. Nessuno resta più uguale a ciò che era prima: è un percorso iniziatico, ma è anche la scoperta del potere della Malora, quello che porta in un primo movimento a una disapora cupa.
Tutti se ne vanno dalla Contea. Tutti, ad eccezione di Dambro:
Io sono rimasto qui, nel mio qui di slanci tiepidi, meraviglie intermittenti e malinconie sanguinanti. Ho ancora i miei desideri, e mi faccio scuotere.
Perché l’ascesi possa compiersi, servono molte forme di sacrificio: che qualcuno resista, che qualcuno si perda, che qualcuno si aggrappi, che qualcuno scopra l’inimmaginabile, che qualcuno si ritrovi. Proprio come in una fiaba cupa dei Fratelli Grimm, in versione contemporanea e travestita: nel bosco ci si smarrisce, e non c’è alcuna Beatrice in grado di salvare (né di salvarsi).
Però, a volte, perfino il Diavolo piange – ed è proprio nel bosco che è necessario andare a stanarlo.
Nessuno ricorda la scintilla iniziale del falò, ma nessuno dimentica la fiamma che smuore nei vespri autunnali