RAM: il disorientamento del presente vestito da futuro

In Teatro

FOTO © LUCA DEL PIA

Una convincente Marina Rocco, in cerca di una propria memoria, è protagonista di un’avvincente scifi ambientato in un 2121 distopico, tra giovani di talento e quello che potremmo diventare

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Creare lo spazio per quello che sarà. Una scommessa ambiziosa, quando si tratta di un debutto, chiamato al delicato equilibrio tra certezze  e le assolute novità.

Da una parte Edoardo Erba, drammaturgo tra i più impegnati della nostra scena teatrale e Marina Rocco, che al Teatro Franco Parenti è di casa da tempo e si appresta a segnare uno di quei passaggi potenzialmente capitali. Dopo averne fatto una incantevole Ondine e una Nora che guarda la Casa di Bambola da un’altra prospettiva, Andrée Ruth Shammah l’ha scelta per essere la prossima Maria Brasca, raccogliendo – e scusate se è poco – il testimone di Franca Valeri e Adriana Asti.

Raccogliendo soprattutto l’ancor più ambiziosa sfida di rileggere un testo che ha segnato la vicenda di chi la dirige per celebrare il mezzo secolo del teatro che il suo autore, Giovanni Testori, ha fondato. Un appuntamento che vede protagonista, tra gli altri un giovane di talento come Filippo Lai, visto nell’altro simbolo testoriano, I promessi sposi alla prova.

La digressione non è peregrina se, prima di questo appuntamento, Marina Rocco è il perno attorno a cui ruota questo interessante e acuto RAM, in scena fino al 30 giugno. Anche qui, ad accompagnarla ci sono talenti che riescono a gestire le gambe tremanti della della prima volta brillando di un talento già evidente, come la giovanissima Irene Vetere, e l’occhio attento del regista Michele Mangini, anche lui al debutto. E giovani ma già solide certezze come Alberto Onofrietti.

A tenerli insieme, due solidissimi interpreti come Gianna Coletti e Giovanni Battista Storti, pronti a mettersi – scenicamente – a servizio di questa felice amalgama. E a fare spazio, si diceva. Perché è da qui, che si parte: dal desiderio, in molti malcelato quanto comune, di ricominciare da zero, di fare tabula rasa di un passato sofferto per scrivere nuove pagine. E se in un futuristico e distopico 2121 fosse talmente facile da non rendersene neanche conto?

La suggestiva cornice scifi che lo vuole proiettato in un mondo colonizzato da androidi che strizzano l’occhio ai film di fantascienza, divise colorate a mo’ di seconda pelle comprese, non è in realtà che un evocativo pretesto. Per raccontare il passo successivo al nostro presente. Un mondo desertificato in cui ormai la vita resiste soltanto in camere iperbariche accuratamente mantenute vivibili solo a patto di dipendere da  accorgimenti tecnologici futuribili. Ma soprattutto, l’evoluzione del capitalismo spinto al di là del parossismo. Dove tutto è merce di scambio e compravendita, non più per avidità ma per sopravvivenza.

Lo è soprattutto quello che non può essere comprato: la vita vissuta, il senso dell’esistenza, l’urgenza di appartenere a se stessi e a qualcosa, a una radice che ci possa raccontare cosa ci ha catapultati, spaesati, in un eterno istante senza passato. Dentro a un mondo futuro in cui bellezza e intelligenza hanno toccato la perfezione tecnica, che tuttavia può essere resa viva soltanto dall’irreplicabile: l’esperienza vissuta. In questa (imminente?) realtà si risveglia Cruz Martinez, una giovane donna dal misterioso passato ingabbiata (anche simbolicamente)  dai bidoni d’acciaio giustapposti nell’installazione dell’artista Mario Iodice, moltiplicata dai video di Alessandro Papa che aggiungono un altro capitolo nella ricerca ormai da tempo in corso della sintesi tra teatro e cinema.  

Cruz si cerca e si perde, in balia delle onde, guidata dalle sirene angosciose di chi si è rassegnato ad essersi già perduto, rimasti ormai vivi ma vuoti, impegnati solo a non soccombere al terrore che fa il buio del vuoto assoluto. Lontano dallo stucchevole passatismo e dall’irrealismo della fantascienza smaccata RAM mette in scena quel che già siamo: il totale spaesamento con cui ormai coesistiamo anche senza rendercene conto, il bisogno disperato di aggrapparci a qualcosa che ci restituisca una immagine allo specchio. Un appiglio, purchè esista.

Che sia qualcuno – finto o vero, umano, androide, ingannatore o sincero – o qualcosa, una memoria di noi qualsiasi, anche posticcia, anche se – per darsi un passato – si è costretti a rubarlo da Flaubert. Perché in fondo “noi viviamo di storie e una storia va scelta. Quella storia la chiamiamo speranza, perché senza speranza puoi avere tutta la memoria del mondo, ma non te ne fai niente.  E allora non importa se a tenere viva Cruz come l’autore di Madame Bovary, che odiò il suo personaggio, è la rabbia e la consuetudine alla fatica”. Marina Rocco, che non ha più bisogno di consacrazione, qui sperimenta nuove temperature, finalmente lascia la levità cui aveva abituato per assumere i panni di una protagonista tanto intensa quanto aspra, indubitabilmente convincente. Per dimostrare che tutto ciò che conta è avere ancora un viaggio da fare e braccia da cercare, fuori dai confini del palcoscenico.

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