Per il “Maggio” Harding rimette a nuovo Adriana Lecouvreur

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Il capolavoro di Cilea non avrà forse l’impatto drammatico di altre opere ma possiede una sua verità intima che il direttore britannico mette in luce con la sua lettura antiretorica

Sarà l’emozione di stare di nuovo seduti in mezzo al pubblico, o sarà invece la direzione di Daniel Harding, per cui non bastano i superlativi assoluti, ma anche lo spettatore più snob si sarà ricreduto almeno un poco ascoltando l’Adriana Lecouvreur che ha inaugurato il Maggio nei giorni scorsi. Altro che cattivo gusto piccolo-borghese: l’opera di Francesco Cilea non è solo effettacci e effettini, non è solo “efficace”, come si dice di solito quando si vuole concedere almeno un complimento a un lavoro che si disprezza. Adriana non avrà forse la forza drammatica di altre opere della Giovane Scuola, ma possiede una sua verità intima e delicata. È la confessione-memoria di una diva che per tutti e quattro gli atti dimostra più cuore che temperamento, al contrario delle deliranti eroine raciniane che le tocca interpretare. 

Foto di Michele Monasta/Maggio Fiorentino

Adriana è l’umile ancella dei suoi sentimenti, delle sue illusioni e delusioni capaci di commuovere tanto le nostre nonne e bisnonne quanto – a sorpresa – un direttore come Carlos Kleiber, che non a caso l’aveva inserita in quella decina di titoli selezionatissimi che dirigeva. Cilea punta in alto con il dramma tratto da Scribe e Legouvé: rievocazione di un Settecento fatto di amori libertini, convenienze e inconvenienze teatrali, con addirittura omaggi al grand opéra. Ma lo fa con delicata ironia, senza prendere troppo sul serio né i suoi personaggi né se stesso, perché ha il coraggio di rivelarci che a volte le verità nascoste di un’epoca stanno più nell’antiquariato che nell’arte, come in fondo sembra suggerire nel programma di sala anche Cesare Orselli, massimo studioso di questo periodo bistrattato in cui musica e teatro reinterpretano il Liberty senza dover per forza pagare il conto a Freud & Co.

È questo che ci fa capire Harding dal podio con la sua lettura antiretorica, lontana da svenevolezze e sdilinquimenti, in cui riesce a restituire ogni volta un’intenzione diversa ai tanti motivi musicali, che chiamiamo “ricorrenti” solo per usare un eufemismo. Non c’è dettaglio dinamico o timbrico che sfugga alle intenzioni del direttore: intenzioni impressionistiche, a quanto ci sembra, sempre alla ricerca di un’atmosfera trasognata, delicata e trasparente, quasi mai decadente.

L’orchestra suona con trasporto – per altro benissimo – ma senza eccessi di vibrato, con un suono pieno ma ricco di sfumature cui contribuiscono gli interventi del corno inglese e del clarinetto, del violino solo e dell’arpa, a conferma che la raffinata strumentazione di Cilea è forse l’aspetto più interessante dell’opera. Curioso l’effetto straniante nel balletto del terz’atto, Il giudizio di Paride, che non è certo Pulcinella ma una pagina composta “à la manière de”, eppure viene affrontata da Harding con una leggerezza e un’ironia che fanno venire in mente le parole di Montale sul Rake’s: “Un delizioso lavoro di ebanista”.

Foto di Michele Monasta/Maggio Fiorentino

A questa interpretazione naturalistica di Harding non vengono sempre dietro i pur buoni interpreti. Maria José Siri è una protagonista impeccabile e scenicamente credibile, lontana dagli eccessi cui la parte tradizionalmente si presta, ma non abbastanza sottile perché emerga il dramma pre-nevrotico di un personaggio indeciso fino all’ultimo tra i poveri fiori di Mimì e le ribalte di Tosca. Più deludente la prova del tenore Martin Muehle, dotato di bella voce ma di pochissime intenzioni, così come quella del mezzosoprano Ksenia Dudnikova, che non mantiene il piglio che sembrava dimostrare al suo ingresso all’inizio del secondo atto. Forse il migliore in scena è Nicola Alaimo, il cui Michonnet dimostra una commovente autenticità.

Il regista Frederic Wake-Walker è arrivato all’ultimo a sostituire l’indisposto Jürgen Flimm, ritrovandosi quindi scene e costumi già fatti, purtroppo per lui. Ne esce dignitosamente affidandosi ai giochi metateatrali cui l’opera si presta, abbozzando l’idea di una Adriana che vive come intrappolata nella prigione del teatro, con la morte che coincide con la sua uscita di scena. I frizzi e lazzi di cinque maschere espressionistiche con gorgiere alla Ariadne auf Naxos richiamano il solito cabaret berlinese di cui forse, ogni tanto, si potrebbe fare a meno.

Immagine di copertina: Maria José Siri (foto Michele Monasta/Maggio Fiorentino)