Paura non abbiamo: in Cile è onda femminista

In Weekend

Com’è che in un paese con profonde radici patriarcali l’8 marzo, nella sola capitale, due milioni di donne sono scese in piazza? Adolescenti, ottantenni, accademiche e liceali, donne mapuche e ragazze dei quartieri più poveri.Tutto è cominciato nel 2018 e le istanze delle donne che
ora vogliono una nuova costituzione si sono saldate a quelle sociali e antirazziste. Reportage dal nuovo, instancabile femmninismo cileno

Ero arrivata al punto di guardare all’Italia come a un Paese non dico femminista, però passabilmente gradevole per una donna. Un posto in cui la parità di genere era garantita, nessuna discriminazione né sessismo. E in cui gli uomini non si sarebbero permessi mai di mancare di rispetto a una donna in quanto donna. Si tende spesso a idealizzare i Paesi che si lasciano e, a mano a mano che andava avanti il mio soggiorno in Cile, anno 2010, l’immagine dell’Italia come Paese dei balocchi per le donne si era così radicata dentro di me che mi è costata una certa fatica al mio rientro farla coincidere con la realtà. Ma i mezzi di contrasto fanno questo e altro. Il mezzo di contrasto era un Paese in cui  le donne non contavano se non avevano accanto un uomo, in cui il senso di identità era dato dal fatto di avere figli o meno mentre la divisione in ruoli era indiscutibile e l’autostima determinata dall’approvazione dei maschi. “Agli uomini italiani piacciono le donne che discutono come fai tu? Non sono troppo mascoline?”, mi hanno chiesto non so quante volte molte donne cilene. E quando cercavo di spiegare che avere un’opinione diversa da un uomo non è uno sgarbo mi ripetevano con occhi spenti: “Sì, ma agli uomini italiani piace?”. 

Ci avevo messo un po’ a capire che i molti segnali che mi avevano stupito all’inizio non erano slegati, ma parti di un quadro e che quel quadro non mi piaceva. Non piaceva nemmeno alle cilene, che se ne lamentavano in continuazione, ma non è facile cambiare le dinamiche fondanti dei rapporti. “Non è che non sappiamo di essere subalterne, ma non riusciamo a cambiarci”, mi aveva confessato un’amica, che ai tempi era di sinistra per ribellione alla famiglia pinochetista e con villa a La Dehesa, il quartiere in cui vivevano i Pinochet. “Io per esempio riconosco che il modo in cui ci trattano è umiliante, però se siamo tante donne in una stanza ed entra un uomo sono la prima a emozionarmi, comincio ad arrossire e mi rincoglionisco”. “Anche se non ti piace?”, le avevo chiesto, e lei: “Certo, per il solo fatto che è un uomo”. 

Pochi giorni dopo essere arrivata in Cile, il direttore comunista di un istituto parauniversitario mi aveva chiesto davanti a un piatto di fettuccine ai funghi, panna e maionese, specialità della casa, se mi fosse trasferita in Cile per scappare da un amore E quando gli avevo spiegato che volevo solo seguire l’America Latina da vicino e non andare e venire come avevo fatto fino a quel momento mi aveva guardato incredulo e aveva ripetuto con voce mielata. “Figurati se ci credo. Guarda che a me lo puoi dire se stai scappando da un amore o stai cercando un amore”. I primi mesi avevo pensato che le occhiate stupefatte della gente quando mi sedevo in un bar da sola fossero curiosità o un certo provincialismo e quando distinti signori mi si avvicinavano chiedendomi gentilmente di dove fossi e se mi piacesse Santiago a volte li invitavo a sedere al mio tavolo. Ah, la squisita ospitalità latinoamericana, dicevo tra me, prima che l’invito quasi immediato a passare il fine settimana con loro non diventasse troppo ricorrente per essere un caso. Finché uno più diretto mi aveva chiesto che cosa andavo a fare in un bar da sola se non per cercare un uomo, ero forse di quelle che “calientan la sopa”? O avevo forse problemi sessuali? Era notorio che le italiane sono sueltas, possibile fosse capitata a lui l’unica frigida? Una conoscente meravigliosa, giovane, bella, mi aveva rivelato con sincerità che non aveva amiche per non rischiare che le portassero via il pololo, il fidanzato. Glielo hanno portato via lo stesso, non un’amica, però. Non ho mai litigato tanto come in Cile, sempre con uomini, O meglio quella che litigava ero io. I cileni maschi non litigano. Ningunean, pelan, ti fanno l’autostima a pezzi quando riescono, però non litigano. Manco le donne litigano, di certo non con gli uomini. Potevano essere di sinistra e femministe, ma non è facile scalfire quella materia granitica fatta di patriarcato, convenzioni e moralismo.

“Fatemi fare un articolo sul Paese più maschilista del mondo, vi prego!”, avevo chiesto al capo redattore di una rivista al mio rientro, a metà del 2010 e dopo tre anni di permamenza a Santiago. Ma invece non l’avevo scritto perché volevo troppo bene al Cile, ero per certi versi innamorata di quel Paese contraddittorio e vitale con cui allo stesso tempo ero costantemente arrabbiata. Ero disgustata dal modo in cui trattava le sue donne, ero arrabbiata dal modo in cui le donne si lasciavano trattare. Otto anni dopo è esplosa la rivoluzione femminista, e il Cile è diventato un Paese così diverso da quello in cui ero vissuta che ormai non faccio che scrivere di femminismo cileno. Di quanto sono brave e coraggiose le cilene, le donne, le ragazze. Di quello che hanno fatto. Di quello che hanno ottenuto. Di come hanno ribaltato il Paese e la testa della gente, di gran parte della gente.

È cominciato tutto due anni fa negli atenei universitari, quelli in cui era normale che un professore di qualunque età dicesse alle studentesse meno avvenenti: “Devi studiare più delle altre perché sei bruttina ed è difficile trovare un marito”. O ci provasse con le alunne più carine nella totale impunità o approfittasse di una contiguità professionale per aggredirle sessualmente come nel caso di Sofía Brito, che adesso ha 25 anni ma ne aveva 22 quando il docente di Diritto Costituzionale de la Universidad de Chile con cui lavorava a una proposta di legge sull’aborto le era saltato addosso in più occasioni finché Sofía lo aveva denunciato alle autorità dell’ateneo. Lui non era uno qualunque ma Carlos Carmona, un pezzo da novanta. Ex presidente del Tribunale Costituzionale e professore tra i più riveriti della U.C. Di sinistra, solidale con le battaglie per l’aborto e per le donne. È finita che lo hanno prima sospeso per tre mesi e poi costretto a dimettersi, ma ci sono voluti 74 giorni di sciopero delle studentesse per arrivare a quella decisione. Adesso Sofía è uno dei pilastri del femminismo cileno. Brillante costituzionalista e poetessa, attivissima in una marea di iniziative tra cui un libro in cui ha raccolto le proposte di intellettuali donne per una costituzione femminista (nel prossimo autunno si terrà un referendum sulla cancellazione della Costituzione ereditata da Pinochet) e inoltre autrice di altri due. È una ragazza minuta dalla pelle rosea e dai capelli ricci e corti scaruffati, un viso angelico e una voce da bambina. In ogni caso non era stata lei la miccia alle proteste, ma una studentessa della Universidad Austral della città di Valdivia, nell’aprile del 2018, sette mesi dopo la denuncia di Sofía e quattro mesi prima delle dimissioni di Carmona. Aveva denunciato un professore per molestie e le studentesse dell’ateneo avevano occupato l’edificio. Nel giro di pochi giorni 24 università in tutto il Paese ne avevano seguito l’esempio, poi le ragazze erano scese in piazza e le manifestazioni, oceaniche, avevano lasciato a bocca aperta il Cile e il mondo. La più famosa è stata quella del 15 maggio a cui parteciparono 150mila studentesse. Era come se avessero rotto l’argine a una diga che vacillava da parecchio. L’hanno chiamata rivoluzione femminista o tercera ola, la terza ondata per distinguerla dai moti femministi che l’avevano preceduta, molto tempo prima. Le ragazze chiedevano equità di genere nell’istruzione e punizione degli abusi, la fine del sessismo nelle scuole e la depenalizzazione dell’aborto, non solo nei tre casi previsto dalla legge. Molte scendevano a manifestare a seno scoperto, cappuccio in testa, e quella mise è diventata una costante nelle rivolte successive, non solo strettamente femministe. Più del settanta per cento dei cileni dichiarava di appoggiare la protesta, ma la reazione nella frangia radicale dei contrari era stata feroce. Le studentesse attiviste dell’Universidad Católica, una tra le più conservatrici, erano state minacciate di stupro e morte da colleghi della destra estrema. E l’attivista Sandra Beltrami, tornata agli studi di legge a 31 anni dopo essersene allontanata per dedicarsi alla famiglia e leader seguitissima, carismatica, bellissima, oltre che minacciata era stata insultata sui social e stalkerizzata. “Avevo dovuto chiedere a un amico di scortarmi ovunque, avevo paura per me e per la mia famiglia ed ero spaventata e stupita da quell’odio e dalle sue conseguenze”. Qualche mese fa si è laureata e nel frattempo ha lavorato come volontaria nella commissione per la difesa dei diritti umani.

Quei quattro mesi di manifestazioni e occupazioni hanno però cambiato le cose negli atenei. In ogni facoltà ci sono adesso comitati di studentesse che prendono in esame le denunce e vigilano sul comportamento dei docenti, corsi di rieducazione al rispetto per le donne e di sensibilizzazione per professori e colleghi. Sembra una cosa un po’ da Unione Sovietica degli anni Quaranta, e infatti qualche professore non partecipa. Le denunce per molestia e aggressione sessuale sono diventate un incubo per gli accademici dopo che decine sono stati sospesi o allontanati, finiti sui giornali e  additati al pubblico. Uno di questi è Juan Pablo Cárdenas, premio nazionale di giornalismo, oppositore alla dittatura di Pinochet e professore alla Universidad de Chile ma anche noto molestatore oltre che aggressivo con gli studenti. Si è ritirato prima che lo sospendessero o cacciassero, mentre il conduttore di Radio Agricoltura Fernando Vallegas è stato licenziato. I professori lasciano adesso aperta la porta del proprio ufficio quando ricevono le studentesse, qualcuno parla di caccia alle streghe e non è detto che a finire alla gogna non ci sia qualche incolpevole. “Questa rivoluzione è meravigliosa e le ragazze hanno ragione ma come tutte le rivolte ha le sue derive e il clima a volte è giacobino”, mi dice un noto regista e accademico, ex attivista del Mir durante la dittatura. Riconosco l’impegno di alcuni uomini nell’immedesimarsi nel fenomeno ma per la maggior parte l’adesione alle battaglie delle donne è una dichiarazione alla moda. Il fatto è che il femminismo è penetrato ovunque. La mappa delle associazioni femministe è affascinante e sterminata. Ci sono gruppi femministi di tifose di storiche squadre di calcio come Colo Colo e Universidad Católica che vigilano contro il sessimo negli stadi. E associazioni delle attrici femministe, delle avvocate femministe, delle scrittrici femministe di cui fanno parte quasi tutte le autrici più apprezzate come Alejandra Costamagna, una delle più note in America Latina (è appena uscito in Italia il suo Il sistema del tatto con Edicola), Nona Fernandeze Lola Larra, nome d’arte per Claudia Larraguibel. Scrittrice ed editrice cresciuta tra Venezuela e Spagna, Larraguibel ha vinto l’anno scorso il premio Andersen con la graphic novel Al sud dell’Alameda, illustrata da Vicente Reinamontes: storia di un gruppo di studenti del liceo durante la rivoluzione dei pinguini del 2006, la prima grande ribellione della transizione democratica. Secondo Lola è proprio in quella protesta che si incontrano le premesse per la rivoluzione femminista, anche se i ragazzini marciavano contro la scuola privatizzata e proibitiva ereditata dalla dittatura e non per le ingiustizie di genere. Ma in fondo le due cose sono legate, se si ritiene come la scrittrice Claudia Apablaza che la prima forma di capitalismo sia lo sfruttamento delle donne in casa. E che la base delle diseguaglianze sociali, della violazione dei diritti economici, cuturali e politici parta dall’idea che quel lavoro e i diritti che ne nascono non vengono riconosciuti. 

E infatti nella rivoluzione femminista del 2018 sono entrate molte battaglie antiliberiste come un salario equo e una sanità alla portata di tutti. Le rivendicazioni si sono sovrapposte e incrociate nel cosiddetto estallido social cominciato nell’ottobre scorso e interrotto momentaneamente dalla pandemia e quelle delle femministe erano così acquisite da diventare inscindibili dalle altre. A dare la spinta per la rivolta di ottobre è stata probabilmente proprio la manifestazione dell’otto marzo dell’anno scorso, la più agguerita e dirompente realizzata fino a quel momento. Le prime a occupare le metropolitane saltando i tornelli sono state ragazze, e molte donne sono state tra le prime vittime della repressione. Dall’inizio della protesta alla fine di marzo le denunce al Instituto Nacional de Derechos Humanos per tortura con violenza sessuale sono state 112 e quelle con tortura accompagnata da comportamenti crudeli 247. E la reazione a quelle violenze – il crollo di fiducia e l’odio generalizzato verso i carabinieri, i cosiddetti pacos – ha inciso perfino nel cambiamento estetico delle grandi città. Da metropoli pacifica e per lo più impeccabile Santiago è diventata lo scenario di guerriglia e resistenza in cui il femminismo ha contribuito da protagonista. I muri un tempo immacolati dei palazzi sono completamente tappezzati di graffiti e murales in cui le scritte Paco culiao e Yo abruebo si incrociano ai disegni di ragazze che mostrano il petto nudo come territorio di lotta. È un grande affresco che si combina con l’odore dei lacrimogeni e con i rumori degli spari nella plaza de la Dignidad, il principale ma non l’unico centro delle proteste in cui ragazze e ragazzi della Primera Linea già nel primo pomeriggio cominciano a prepararsi per la lotta. Seduti nella piazza in attesa della sera e dei pacos, provano le fionde o più semplicemente aspettano, a torso nudo e il fazzoletto che gli copre naso e bocca, mentre le coppie di adolescenti si baciano a ridosso del Primer Auxilio e passano ragazze che a volte indossano soltanto gonna e scarpe, e grandi fiori disegnati sui capezzoli che si allargano sul petto nudo. El estado opresor es un macho violador, dice la canzone de Lastesis, centrando il punto in cui si incontrano battaglie femministe e sociali. Alla marcia dell’otto marzo di quest’anno hanno partecipato nella sola Santiago due milioni di donne. Gli abitanti della capitale sono sei milioni e mezzo, quelli del Cile meno di diciannove. È stato magnifico e impressionante, arrabbiato e creativo. C’erano processioni di tamburine e gruppi mapuche e associazioni di ogni tipo e donne di ogni età, moltissime le adolescenti: interi licei che marciavano gridando Soy puta, soy maraca, pero nunca paca e Que muera Piñera y no mi compañera.

Dicono gli analisti che la vera forza di questa ribellione sono le femministe. Quello che non dicono è che la maggior parte lo sono diventate di recente, vedi le disimpegnate madri di famiglia che si iscrivono al neonato Partido Alternativa Feminista fondato dalla 64enne Rosa Moreno, attivista di Unidad Popular ai tempi di Allende ed esiliata in Belgio, poi ex direttore internazionale di Greenpeace. Erano donne che si incontravano su gruppi wapp in cui si confrontavano su temi di ogni tipo, dalla ricerca di lavoro ai mariti infedeli o violenti. Dopo il successo dell’inno femminista Un violador en tu camino del collettivo Lastesis hanno deciso di imitarne la performance in versione senior esibendosi in diverse migliaia davanti al Estadio Nacional, molte avevano 80, 85 anni. Finché a Rosa è venuta l’idea di trasformare quella rete in un partito. Potrei andare avanti all’infinito a parlare delle femministe cilene in questo pezzo interminabile. Potrei raccontare delle coraggiosissime ragazze di quattordici, quindici anni della Primera Linea che durante le proteste si buttano sui lacrimogeni che i carabinieri sparano ad altezza d’uomo, per spegnerli prima che esplodano. La Primera Linea è l’avanguardia delle proteste, spesso pacifiche ma non autorizzate e rappresentano una specie di barriera umana per impedire ai pacos di arrivare alla manifestazione. Bloccano quei lacrimogeni e lanciano ai carabinieri pezzi di asfalto, tirano pietre oppure offrono servizi di soccorso in cui spruzzano acqua con bicarbonato negli occhi dei manifestanti che bruciano per i gas e gli idranti. La gente della Primera Linea arriva da quartieri come La Pintana, poverissimo e centro del narcotraffico e da altre zone marginali e povere. Oppure potrei parlare di quell’artista meravigliosa che è Mon Laferte, cantante simbolo della protesta insieme alla franco-mapuche Ana Tijoux. Quando ha vinto il Grammy Latino, nel novembre scorso, in pieno estallido, si è scoperta il petto su cui era scritto: En Chile torturan, violan y matan. Per Laferte, che adesso vive in Messico, la protesta sociale e quella delle donne sono un tutt’uno, o almeno lei le incarna entrambe. Nata e vissuta in una poblacion della città di Viña del Mar, ha raccontato di aver patito la fame per tutta l’infanzia e di aver cominciato a cantare per mangiare. Ha 33 anni, capelli nerissimi, braccia tatuate e una spettacolare presenza scenica grazie alla quale i suoi concerti sono eventi colossali.

E potrei anche parlare delle studentesse del liceo che capita di incontrare in ogni angolo della città e a qualunque ora. Adolescenti con l’uniforme e le calze al ginocchio che marciano gridando slogan contro un sistema che le discrimina come donne e come appartenenti a classi bassi e anche a quelle medie, perché in quel Cile senza welfare in cui lo stipendio minimo è di quattrocento dollari e la vita costa come in Italia i ricchi sono gli unici a non piangere. Ho visto quelle liceali affrontare a muso duro drappelli di carabinieri arrabbiati da far paura urlando loro che se avessero avuto le palle si sarebbe già uniti alla protesta, anziché sparare alla gente. E infine potrei interrogarmi e interrogare su quanto le battaglie di questi anni abbiano cambiato le dinamiche di genere, i rapporti delle donne tra loro e quelli con quegli uomini e fino a che punto questi ultimi sono riusciti a stare al passo. Ci hanno provato? Lo zoccolo più resistente vive come un pericolo qualunque rivendicazione ed è terrorizzato dall’apparizione sulla scena di un numero sempre maggiore di professioniste brillanti e sicure di sé. La destra cilena è uno scoglio quasi insuperabile per le conquiste di genere e la misoginia ne rappresenta uno dei fondamenti. Capita di continuo che personaggi pubblici di quella parte attacchino giovani donne emergenti il cui avvenente aspetto fisico offre la stura per dar loro più o meno direttamente delle zorras, delle prostitute. Non è una guerra facile ma le cilene la combattono senza cedere terreno. Per Claudia Apobalaza le conquiste sono soprattutto “micropolitiche”: gli enormi cambiamenti nei rapporti personali, nella consapevolezza di sé, nello spirito di genere e nei collettivi. “Siamo molto più forti, più coscienti dei nostri diritti”.

Guardo i cortei di adolescenti combattive e unite, difficili da intimidire e mi chiedo se siano già così temprate da prevenire i tentativi di prevaricarle e irriderle. Di certo sono sulla buona strada. I giovanissimi sono diversi dagli uomini delle generazioni precedenti e in particolare della mia con cui continuo a litigare anche se meno. Non trovo siano cambiati granché. L’unica differenza è che a sinistra sono diventati sufficientemente corretti da simulare un entusiasmo smodatissimo per le battaglie femministe. E’ un’adesione quasi sempre di facciata e goffa ma almeno non mi è più successo di sentirmi dire come quella volta quando vivevo in Cile: “Anche Pinca Palla è giornalista come te, anzi molto più famosa. Ma quando esprime una idea diversa dall’uomo con cui parla lo fa con dolcezza, in modo che non si noti”. Per farsi perdonare quella irriverenza? avevo commentato ironica, prima di cominciare a litigare.

Foto di Gabriella Saba

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