Tre volte Fresu (in buona compagnia)

In Musica

Al Blue Note, la prima sera con Gianluca Petrella e le altre due con il quintetto e con il Devil Quartet, Paolo Fresu ha ripercorso il suo repertorio, ricco di reminiscenze antropologiche e storiche (la sua terra, il jazz) ma allo stesso tempo caratterizzato da un linguaggio personale e innovativo. Denso di emozioni

Gianluca Petrella (trombone), Tino Tracanna (sax), Roberto Cipelli (piano), Attilio Zanchi e Paolino Dalla Porta (contrabbasso), Ettore Fioravanti e Stefano Bagnoli (batteria), Bebo Ferra (Chitarra) e, dopo il suono della campanella, in aula entra Nicola Angelucci (batteria). Il comun denominatore di questa classe… di fuoriclasse che in formazioni diverse ha suonato al Blue Note il 2, 3, 4 febbraio è Paolo Fresu, trombettista. La sua Sardegna è scolpita tra i solchi delle sue rughe così simili ai vicoli di Berchidda. Non bussa ma entra sicuro sul palco; la falcata è accentuata dalla sua scarpa nera, consumata ma lucida e appuntita. Sarà sempre la stessa durante le tre sere delle tre performance di cui andiamo a narrarvi.

Nella prima, giovedì 2, Fresu suona con Gianluca Petrella, e il Blue Note non è esattamente strapieno, anzi, ed io sono al buio in prima fila. L’atmosfera mi ricorda Brian Eno, i Radiohead, Bonobo, a tratti i Kraftwerk e nella mia testa ho solo le immagini di Blue Velvet di Lynch. Il trombone di Petrella ha spesso la tendenza a riprodurre tramite la Loop Station temi ciclici e ipnotici mentre Fresu percuote la bocca del flicorno con la fede, che porta al dito, come a sostituire il ticchettio delle bacchette sui cerchi del rullante. Successivamente registra una nota lunga che fa da tappeto a tutte le sovra-improvvisazioni. Interessante il beat-box di Petrella al trombone che fa scattare un solitario applauso seguito da un urlato “BRAVO!”.

Non riconosco Nature Boy di Nate King Kole ma noto che Fresu ha un intimismo tutto suo nell’approccio con il proprio strumento: nelle note acute e libere lo solleva verso il soffitto e lo stacca dalla bocca con una sola mano, la destra, disegnando un’ala di gabbiano, mentre in altri momenti si rannicchia su di esso e lo rivolge verso il pavimento. Quest’ultima è una posizione che adotterà solo la prima sera. Come solo la prima sera tra le note si insinuano le citazioni: si inizia con qualche secondo di slang afroamericano dei sobborghi (forse) newyorkesi, si passa poi al Cantu a Tenore, ai ritmi tribali dei canti africani, per arrivare al mottetto rinascimentale e concludere con un monologo sulla felicità di Sergio Atzeni letto da Lella Costa. Le citazioni son sempre arricchite dalle improvvisazioni: la tradizione del jazz si sposa con l’innovazione elettronica come solo la menta e il pecorino all’interno del ripieno di patate dei Culurgiones.

Venerdì 3 piazzale Lagosta è un vero delirio: parcheggi introvabili e pedoni aspiranti suicidi ovunque. Arrivo leggermente in ritardo e mi godo il Paolo Fresu Quintet dall’alto, appoggiata alle ringhiere del balcone sopraelevato. Riconosco uno Steinway, la camicia rosa di Roberto Cipelli e noto che il quintetto è composto da strumentisti tutti classe ’50 tranne Paolo. Suonano insieme da più di trent’anni e la confidenza strumentale tra loro è tale che non hanno bisogno, almeno apparentemente, di programmare una scaletta. Suonano ciò che gli va di suonare attingendo da un repertorio decennale: il flicornista detta legge e gli altri lo seguono a ruota. Questa sorta di dittatura del flicorno è una costante in ognuna delle tre performance, ed è Fresu stesso a dire che non si ricorda i brani che ha appena suonato. In The Imperfect Art: Reflections on Jazz and Modern Culture (1990) Ted Gioia scrive: «Jazz music lives and dies in the moment of performance, and in that moment the musician is his music». Il ricordo di quello che si è appena suonato svanisce non appena le note iniziano a risuonare: il jazz è evanescenza così come l’improvvisazione; il baricentro tra le due cose è la performance che cerca di fissare il tempo nella mente dello spettatore servendosi del veicolo dello strumentista. Nel jazz la registrazione, il disco, l’incisione sono una forzatura purtroppo inevitabile di questo processo.

Il dialogo tra Tracanna e Fresu è incessante sia in Monkeys che nella struggente Immaginazione, Gialle Foglie. La concentrazione si sposta sui virtuosismi: a tratti mi sembra addirittura traspaiano influenze free alla Coleman. Durante il bis, Fellini, è Fresu a fare riferimento al tempo, che inesorabile scorre e a cui noi non facciamo più caso: non dedichiamo più tempo al tempo.

Il 4 per il concerto del Fresu Devil Quartet, mi muovo con largo anticipo e ho la fortuna di poter scegliere il posto: balconata sulla sinistra del palco. Dietro di me gli occhiali rossi del trombettista statunitense Roy Hargrove. Ferra è di spalle, visibile è solo la sua schiena ed il jack verde fluo attaccato alla Gibson da una parte e alla pedaliera dall’altra. Percepisco continue sostituzioni armoniche d’accordi interrotte da “soli” che li travolgono: Bebo si muove come su un’altalena, grida e la sua chitarra è un mitra che spara contro la batteria di Bagnoli.

Iniziano con Satisfaction, poi con una composizione di Fresu, Moto Perpetuo e Blame It On My Youth ballata dedicata a Chat Baker in cui la tromba è l’assoluta protagonista. Fresu è sempre di sbieco rispetto al pubblico, come se fosse dipinto in due dimensioni da un antico egizio; solo quando parla è ben dritto davanti a noi e assume una tridimensionalità. Ci racconta di quella volta a Lucca quando la responsabile dell’ “hotel de charme” in cui alloggiava lo aveva spedito nella camera in cui Baker aveva dormito nel 1961, poco prima di essere arrestato e passare 16 mesi in carcere per possesso di droghe.

Gli altri componenti del Devil ascoltano incantati, come se fosse la prima volta che sentono raccontare questa storia. Poi gli arpeggi di Ferra e la tromba inizia a suonare quelle cinque note e qualcuno al mio fianco fischietta sottovoce con lei. I soli di Paolino Della Porta sono giocati o sulla parte più bassa o su quella più alta della tastiera così imponente del suo contrabbasso, intanto le spazzole si muovono in maniera circolare sul timpano: in Game 7-Elogio del Discaunt (omaggio e parodia del discanto barocco) Bagnoli esegue un solo eccezionale. Usa pugni, dita, spazzole, bacchette sulla pelle del rullante e a mano a mano, in un crescendo che porta all’entrata di tutti, aggiunge elementi: il timpano, i tom-tom, il piatto sulla sinistra e poi sullo hi-hat.

Fresu spoilera il nuovo disco Desertico inciso con i Devil (uscirà l’anno prossimo) e tutti suonano un brano dedicato a Giulio Libano: Bebo passa all’acustica, tutto è molto bossa nova. Segue un brano dal groove alla Snarky Puppy: Dalla Porta si serve dell’arco e i crini scorrono violenti sulle corde in detaché. Sento il tavolino tremare e mi accorgo che una signora sta tamburellando fortissimo di fianco a me. Fresu tira la somma delle tre serate e ringrazia tutti, amici, colleghi, pubblico e dipendenti. A sorpresa chiama sul palco Nicola Angelucci che non si tira indietro e il quartetto diventa quintetto.

I tre live sono concatenati dalla presenza costante di Fresu e del suo suono che si fondono tra di loro e allo stesso tempo con la formazione che li accompagna. Fresu è le sue formazioni, è la sua tromba, è il suo flicorno, è il suo suono: «Alla fine credo che il suono sia una cosa che è nella nostra testa e che si nutre attraverso cose molto diverse che sono gli incontri, gli ascolti, i progetti musicali, il fatto che io oggi utilizzo anche le strumentazioni elettroniche come un altro strumento in più, il fatto che io suoni con il flicorno, che è ancora un altro strumento, la tromba aperta, la tromba con la sordina, che per me son tre strumenti separati. Il suono è un po’ la nostra carta di identità, è quello che ci racconta, è quello che ci rappresenta, è quello che dunque cambia anche nel tempo funzionalmente a quanto noi e a come noi cambiamo nel tempo […] e quindi non mi pongo il problema, perché penso che il suono debba essere estremamente naturale come dobbiamo esserlo noi sul palcoscenico. La differenza tra il musicista e l’attore è che l’attore deve essere in grado sul palcoscenico di interpretare ruoli diversi, il musicista deve essere semplicemente nudo e capace di essere quello che è, nel bene e nel male. Il suono è l’interfaccia verso gli altri e dunque deve esattamene rappresentare quello che siamo. […] Ovviamente c’è stato uno studio a monte ma poi uno dimentica, cercando di costruire un linguaggio originale attraverso un suono originale. È una delle cose più difficili.»