Il prototipo della tragedia rivisto e riletto in chiave psicanalitica da Girard. Intanto l’opera di Rossini dopo un secolo e mezzo arriva fischiata alla Scala e Michieletto “stupra” il Guglielmo Tell
Tempi bui per l’opera seria rossiniana, mal accolta in mezza Europa da un pubblico contrariato da regie “nordiche” e difficili, quelle che proprio non si capiscono. Da una parte l’attesissimo Guglielmo Tell al Covent Garden di Damiano Michieletto – l’aggiornatore del melodramma, italiano di nascita ma freudiano sulla scena – suscita l’indignazione di una claque di irriducibili tatcheriani per la violenza di uno stupro, nelle intenzioni metaforico ma letterale nella realizzazione. Dall’altra Jürgen Flimm, eccentrico regista a suo modo geniale – sorprendentemente investito del serioso incarico di sovrintendere l’Opera di Berlino –, è stato sommerso di fischi per il suo Otello alla Scala, titolo assente a Milano da quasi un secolo e mezzo, e che invoglia a ripescare le più autorevoli speculazioni sul gelosissimo moro di Venezia.
A indagare un poco le ragioni del dissenso per Flimm, si capisce che non basta l’incidente di percorso di un’arpa spinta su un incerto carrellino incagliatosi a metà del palco durante la Canzone del salice. E nemmeno la gondola portata a mano e “parcheggiata” goffamente in proscenio all’inizio del terzo atto. In effetti lo spettacolo abbonda di passaggi misteriosi spesso sporchi. Ma più in generale, sembra che al tono da opera buffa che Flimm ha voluto dare ai primi due atti non corrisponda quell’atmosfera salottiera che l’opera esigerebbe.
La “melodrammatizzazione” di Otello, che lo ha portato dalla prosa all’opera per ben due volte in Italia – appunto con Rossini in apertura di Ottocento e Verdi in chiusura – ha imborghesito l’universalità dei temi scespiriani, trasferendo le dinamiche dell’intreccio a una dimensione più mondana. Ad esempio Desdemona, «bella guerriera» in Shakespeare, diventa nelle due opere una docile dama da salotto, innocentemente passiva nel suo ruolo di vittima.
Il critico Harold Bloom, con una penna stentorea che non ammette repliche, ha mostrato come i personaggi di Shakespeare esplorino fino ai confini la loro umanità: come se il bardo nei suoi testi avesse inventato l’uomo moderno. Chi accetta la sentenza distinguerà in Otello un vero tocco michelangiolesco, da Creazione di Adamo.
«I am not what I am» ammette Iago; quanto a Otello: «He’s that he is». Il primo non è quello che sembra, mentre il secondo – a parere del primo – sembra proprio quello che è. Una manciata di parole monosillabiche centrano chirurgicamente famigerate questioni, novecentesche e oltre, sull’identità: personaggi che non sono in grado di chiarire a se stessi il proprio io, e che proiettano sugli altri la certezza di una personalità definita.
Otello è all’apparenza il dramma della gelosia, divenuto in ciò emblematico fino a certi modi di dire chic – «sono geloso un pochetto, come Otello» fa Woody Allen a una passante in Io e Annie. Ma la tragedia possiede la scespiriana qualità delle molteplici letture: una vitale ambiguità in cui i temi trattati non sono ordinati gerarchicamente, ma si amalgamano in una coreografia onnipervasiva, comprensibile a tutti e per tutti ugualmente misteriosa. La gelosia c’è, ma è solo prima manifestazione di sostrati psicologici, sociali, perfino antropologici.
Un moro a Venezia, mal consigliato dal suo alfiere Iago, bianco. Ecco già una stravaganza, un rovesciamento del tradizionale bianco-bello nero-brutto. «Un paradosso coloristico come espressione della polivalenza della natura umana» dice Giorgio Melchiori, perché Shakespeare struttura ogni tragedia attorno alla dialettica di realtà e apparenza, di verità e menzogna.
E questo è soltanto l’immediatamente visibile, l’involucro superficiale del testo. Un dramma dialettico con due protagonisti complementari, ma che a ben guardare sembrano gli identici risultati di una mitosi, di uno sdoppiamento cellulare: tanto simili che nelle scene a due per poco si rubano le battute a vicenda, a giustificare la tradizione secolare per cui gli attori si scambiano i ruoli da una sera all’altra – dal Settecento fino ai nostri Gassman e Randone.
Ma se si vuole mettere in gioco René Girard, Iago non ha altra ragione di esistere se non quella di «sostituto mimetico» del moro: Shakespeare devia sul villain tutti i sentimenti malvagi del protagonista, il quale non avrebbe bisogno dell’intervento del suo alfiere per scatenare il processo distruttivo che gli farà strangolare la moglie. Il bel Cassio, che Desdemona non si sogna nemmeno di guardare, è un giovane veneziano raffinato, nei tratti opposto al moro. Ma Cassio diviene per Otello il più temuto degli ostacoli proprio perché quest’ultimo ne è attratto, e «una volta che il modello e l’ostacolo sono diventati un tutt’uno, anche Eros e la pulsione distruttiva diventano una cosa sola». Provocatoriamente, Girard rende complici Otello e Desdemona in un percorso sadomasochista che i due amanti desiderano. Per il filosofo francese, il desiderio procede sempre verso la distruzione, ed è solo per questo che si crea degli ostacoli: per irrobustirsi. Così come nessuno ha mai spinto veramente alla morte Romeo e Giulietta – chiunque può notare le forzature del finale -, analogamente sembra evidente un tacito consenso un po’ perverso della coppia amorosa di Otello.
Se infine facciamo intervenire Auden, Wystan Hugh si riferisce a Iago parlando dell’acte gratuit di Agostino. Per nulla santo, in Iago non c’è movente né per le sue azioni né per l’odio verso Otello: deboli le gelosie per il moro – che avrebbe a sua volta dormito con la moglie dell’alfiere – così come le invidie per Cassio – nominato luogotenente al suo posto. Iago sembra agire tanto per agire, in «un’affermazione assoluta di autonomia dell’ego». Mai infatti i desideri dell’uomo – fisiologici, sessuali, perfino intellettuali – mai vengono scelti, perché in quanto desideri naturali essi sono semplicemente dati. A questo punto solo chi agisce in modo del tutto arbitrario si emancipa dalla necessità, per diventare autonomo: finalmente un «puro atto di scelta» – viene in mente la teoria hitchcockiana del delitto perfetto, quello senza movente, in cui si rifiuta qualsiasi logica e concatenamento di ragioni.
(foto di Matthias Baus)