La guerra di Rosi lontano dai fronti: “Notturno” mostra e non commenta

In Cinema

Per tre anni il regista di GRA” e “Fuocoammare” ha girato l’Iraq e il Libano, la Siria e il Kurdistan martoriati da conflitti e genocidi. Tra soldati che fanno la guardia al nulla, donne che piangono i figli morti accanto ai muri delle prigioni, bambini che disegnano l’orrore dello sterminio. E un’umanità che resiste. Con immagini di grandi qualità e poche parole, come il suo cinema ha sempre fatto

È stato girato tra Kurdistan, Iraq, Siria e Libano Notturno, il nuovo doc di Gianfranco Rosi, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Un viaggio rischioso, durato tre anni, in una regione martoriata e infelice, di cui il regista vuol restituire un ritratto al di là della cronaca. Come ha detto Rosi, un film che “inizia dove finiscono le notizie da consumare”, girato lontano dalla linea del fronte, “non seguendo l’esodo dei profughi ma andando loro incontro, là dove tentano di ricucire le loro esistenze”.

Ed ecco soldati che corrono nella notte, a drappelli, scandendo il passo e respirando forte. E altri fermi in mezzo al nulla, immobili nel vento che agita le bandiere e solleva la polvere, impegnati notte dopo notte in un compito tanto imprescindibile quanto inutile: presidiare un posto di blocco su una strada nel deserto, dove non passa mai nessuno. 


Donne velate che camminano nel buio costeggiando i muri di una prigione vuota, alla ricerca delle anime di chi in quell’inferno è morto. E appoggiano le mani sulle pareti, cercando di sentire il sangue dei loro figli che impregna i muri, le lacrime che bagnano la terra arida. Prigionieri ammassati come animali, e come tali ridotti al silenzio più ottuso, e animali (cavalli) che scorrazzano liberi nelle vie della città deserta, insieme a ragazzini che passano rombando e impennando le loro motociclette, come i ragazzi delle nostre periferie. E l’idea improvvisa e disturbante che forse proprio questo sia ciò che resta di un’impossibile normalità.

E poi donne curde in uniforme, esauste e infreddolite, eppure capaci di qualche incerto sorriso. E i terribili disegni dei bambini yazidi, che raccontano l’orrore senza fondo di un tentativo di sterminio. Un altro genocidio. Non il primo e nemmeno l’ultimo. Infine, il giovane Alì che per aiutare i fratellini si adatta a mille mestieri, non ultimo quello di mettersi umilmente al servizio (proprio come un cane che riporta la preda) di un cacciatore che ostinatamente si avventura in mezzo alle paludi di anitre.  

Rosi non prende di petto la guerra, la costeggia. Non mostra direttamente quello che accade ma le conseguenze degli accadimenti. Non le stragi, ma la paura, non i morti ma l’elaborazione del lutto da parte di chi è rimasto. E non può far altro che cercare di sopravvivere, con immensa fatica e insopportabile dolore. 

È un’idea di cinema radicalmente antispettacolare, quella di Rosi, ma non per questo indifferente all’estetica dell’inquadratura. Anzi. A uno spettatore diffidente certe immagini di struggente bellezza, certe inquadrature così perfette, calibrate e rigorose potrebbero persino sembrare “troppo belle”, quindi in qualche modo invalidate, diminuite nel loro valore etico. Ma sarebbe un modo davvero manicheo di guardare a questo film, e in generale al tentativo del cinema di dare conto della realtà prendendosi il rischio di andare alla ricerca di una possibile verità attraverso le contraddizioni di uno sguardo che non è mai puro, perché è sempre e inevitabilmente imbevuto di fascinazione e amore. Fascinazione anche nei confronti di ciò che è orribile, e che forse andrebbe inquadrato meglio, anche in termini storici, politici e sociali.

Ma a Rosi non interessa (e lo ha dimostrato anche nei suoi film precedenti, GRA, Fuocoammare) mettere in fila parole, spiegare e contestualizzare. Quello che vuole è mostrare: la guerra, certo, ma soprattutto la nostra umanità che resiste, nonostante tutto. Anche se ci muoviamo a tentoni, in una perenne oscurità sottolineata dallo stesso titolo, Notturno, che ci appare ben presto come una vera e propria dichiarazione di intenti. Il che non vuol dire rinunciare a capire, ma piuttosto evitare risposte preconfezionate, tanto rassicuranti quanto inutili. 

Notturno documentario di Gianfranco Rosi

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