Dall’inizio di aprile, a non si sa bene quando, da MMXX – studio/spazio di Daniele Milvio ed Emanuele Marcuccio a Milano – ha inaugurato “Works from the H.E. Collection”, progetto outsider che Vittoria Caprotti, nonostante le scarne informazioni, ha visitato per noi!
La flemmatica pigrizia che, secondo la tradizione, mi è astrologicamente propria, essendo io nata a fine giugno, fa sì che raramente vada alla scoperta di luoghi ignoti e situazioni nuove e persone sconosciute. Per questo, da MMXX ci sono stata solo due volte ed entrambe molto di recente: ai luoghi e alle situazioni e alle persone arrivo sempre in ritardo, senza poter mai dire a nessuno “Ho scoperto che”, dato che chiunque già conosce cos’ho scoperto. MMXX, quindi, a Milano lo frequentano tutti da anni, mentre io ci sono stata solo per le ultime due mostre: quando ha chiuso la penultima, non vedevo l’ora che inaugurasse quella seguente per poter tornare nello spazio con qualcosa di nuovo da vedere, oltre all’esilarante, dolcissimo, iconico pavimento blu con inserti di barchette e salvagenti, tipo asilo, che solo per quello, adesso, ci andrei tutti i giorni, da MMXX.
All’inizio di aprile, da MMXX – che è lo studio/spazio di Daniele Milvio ed Emanuele Marcuccio – ha inaugurato “Works from the H.E. Collection”; Marcuccio (al quale ho consegnato un tassellatore lasciatomi sul portone del palazzo da una ragazza molto di fretta dopo aver captato che stavo per incontrarlo: sono queste le cose che mi fanno dire che uno spazio si merita una visita, è la vita vissuta), dicevo: Marcuccio, seduto sul divano all’ingresso, spiegava, comunicato stampa parlante, a me e alle due persone che mi accompagnavano che H.E. è un’artista che colleziona opere di artisti cosiddetti “outsider”. Chiarito che questo termine lei, lui e noi lo aborriamo (lo userò comunque, perché, altrimenti, chi ci pensa alle categorie kantiane?), Marcuccio ha aggiunto che H.E. ha chiesto di rimanere anonima e che si occupassero lui e il suo collega dell’allestimento, ché lei non voleva far niente; H.E. mi sta molto simpatica: ne condivido e promuovo il modus operandi. I due padroni di casa hanno inserito i lavori dei quattro “outsider” dentro a delle buste di plastica trasparente e le hanno fissate sul retro di alcune tele di dimensioni variabili con delle puntine metalliche.
Nella sua prefazione a una ristampa dello zavattiniano poemetto dedicato ad Antonio Ligabue, outsider-naïf per eccellenza in Italia, Giovanni Raboni scrisse che “Queste notizie comicamente scarne e superficiali sono, a mio avviso, tutto quanto può servire (per non dire che, probabilmente, sono superflue anch’esse) alla comprensione, diciamo così, pratica del testo che qui si ripubblica. Il poemetto di Zavattini – lo chiamo anch’io così, provvisoriamente in attesa di una definizione o ridefinizione meno banale che forse non verrà – presenta infatti una caratteristica eterna di strabiliante semplicità: quella di incorporare nel proprio tessuto espressivo tutti i dati possibili e desiderabili, compresi i più ovvii, i più elementari”. La “caratteristica eterna di strabiliante semplicità” – sarà che è una roba che accomuna gli outsider – si ritrova anche nell’allestimento corrente, così come le “notizie comicamente scarne e superficiali” sugli artisti.
Come in Zavattini, servono le ovvietà e i fatti elementari – facilmente reperibili su Google – per guardare i quattro artisti in mostra: Margarethe Held, Horst Ademeit, Madge Gill e Bruno Schleinstein. Si può fare un viaggio a partire dalla figura umana di Held (conditio sine qua non per mettersi in viaggio è che esista qualcuno che lo faccia, il viaggio) verso gli interni di Ademeit (le cui polaroid, mi giunge voce [non verificata], sono or ora in mostra anche nella collettiva di ZERO…), per poi attraversare i paesaggi di Gill (piante, fiori, liane, foglie, campi), terminando con gli studi di Schleinstein (momento di studio e riflessione dopo aver preso coscienza di sé, del proprio piccolo mondo e di quello gigantesco che sta tutt’attorno). È davvero un percorso di “strabiliante semplicità”. Sarà un qualche sesto senso femminile, sarà un caso, ma Held e Gill mi irretiscono.
Nel 1950 Held incontrò uno spirito, un’entità che si presentò a lei come “Siwa, Dio degli indiani e dei mongoli”, ordinandole di prendere in mano la matita e iniziare a disegnare: un inizio di carriera più avvincente della stragrande maggioranza di quelli che si sentono in giro di solito. Di Held c’è una sola opera in mostra, di cui non si sa la data esatta di realizzazione (“20th c.” nel foglio di sala: “notizie comicamente scarne e superficiali”). Sulle prime sembra senza dubbio un ritratto femminile, con quelle labbra rigorosissimamente sinuose e gli occhioni in cui perdersi; però, poi, la figura ha pure dei notevoli basettoni wolveriniani e l’ombra filamentosa delle gote che vorrebbe essere segno di un qualche dolce imbarazzo ricorda piuttosto un principio di ipertricosi à la don Petrus Gonsalvus. Mi maledico per il binarismo iper-conservatore in cui sono caduta guardando il disegno e mi dico da sola che Held, tramite Siwa, conosceva sicuramente esseri-del-terzo-sesso in cui convivevano machissimi peli neri e sguardi languidi da dama del ‘700 francese.
Tra i paesaggi d’inchiostro nero di Gill, pure questi senza data, ce n’è uno – l’unico, in realtà, di cui il foglio di sala dia conto dell’anno di realizzazione: 1950 – in cui sotto la rete di segni scuri si intravede uno scarabocchio rosso; data e colore, due eccezioni in un unico foglio. Sposatasi senza amore con un cugino, perse la figlia appena nata dopo un parto tragico, così come il figlio a causa della spagnola del 1918, con la quale pure lei si ammalò e rimase cieca da un occhio. Abituata in qualche modo e grado al buio, disegnava, scriveva e ricamava di notte alla luce di una lampada a olio, guidata da uno spirito che lei chiamava Myrninerest (“My inner rest”?). Riguardando le foto che ho scattato ad alcuni disegni di Gill e sapendo che era mezza cieca, penso ridendo al De Chirico che si scagliò contro Van Gogh definendolo un “disgraziato cloromane e deficente”, chiedendosi “se il fatto di tagliarsi un orecchio e mandarlo in regalo a quella pensionante potesse costituire una prova irrefutabile di eccellenza nell’arte del dipingere”: questa aveva perso un occhio, immaginarsi quanto bene potesse disegnare, quanto potesse essere un’eccellenza – e quanto poco possa fregarmene, perché, come scrisse Sottsass, “Le opere sono cadaveri vaganti. Invece io vorrei sapere com’è stata la vita di ogni polvere che c’è sotto i tumoli di tutte le necropoli del mondo. Per questo non vado mai a vedere i musei e quando ci vado mi viene una melanconia infinita: penso a tutto quello che c’è stato dietro le opere”.