Nel Nome della rosa Filidei ha fatto una magia

In Musica

Il celebre romanzo di Umberto Eco riletto in forma di opera lirica dal compositore pisano (con la complicità del regista Damiano Michieletto) ha debuttato alla Scala con un trionfo. Lo spettacolo è un capolavoro di astrazione e di concretezza e la musica è varietà, imprevedibilità, incisività in equilibrio fra gli estremi del lirismo e della fisicità. Qualità che ritroveremo in svariate forme nelle opere del Maestro disseminate nel programma del festival di “Milano Musica” a lui interamente dedicato

Alla Scala c’è un’opera in cui ti perdi. Dopo molto o poco, non sai più dove sei. E non perché sia vaga, incerta, dispersiva, nebulosa. Al contrario: la musica e lo spettacolo ti trascinano negli eventi, nei personaggi, nelle parole, nel canto, nel Suono senza lasciarti un attimo di respiro. Che un’opera sfrontatamente nuova, tratta da un libro come Il nome della rosa di Umberto Eco (1980) potesse e dovesse risultare labirintica, si sapeva. Così l’hanno annunciata l’autore, Francesco Filidei, classe 1973, nato a Pisa (importante più di quanto sembri), parigino da anni, e Damiano Michieletto, regista che alcuni ancora temono (chissà perché) e che con questo spettacolo aggiunge un altro tocco della magia di cui è capace solo lui con i suoi collaboratori (il mago in seconda Paolo Fantin per le scene, Carla Teti, costumista flessibilissima, Fabio Barettin per le luci, Mattia Palma per la drammaturgia). 

Il nome della rosa di Filidei ha debuttato domenica in un clamoroso trionfo, screziato solo da qualche incredibile buh sceso dal loggione (qualche isterico disturbato, forse, andato perfino in confusione perché ha scambiato persone al momento degli applausi). Il nome della rosa, dicevo, in scena per quattro repliche il 30 aprile, 3, 6 e 10 maggio, a Scala esaurita, è un’opera che per due ore e mezza ti strattona in ogni angolo della quasi indecifrabile trama di un libro che è trans-romanzo, trans-racconto storico, trans-saggio medievale, trans-giallo, trans-tutto. Insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti, Filidei ha compresso l’incomprimibile in un libretto di proporzioni geometriche che rispetta l’architettura del libro – sette giornate in sette “stanze”, divise in due parti – tralasciando poco o nulla del labirinto in cui Eco concentrava sapienza, immaginazione, arte della citazione e “plot”.

Il luogo in cui si compiono i delitti di cui Guglielmo da Baskerville, detective francescano, è chiamato a indagare, è un’abbazia del nord Italia in un preciso ma non vincolante 1327. Fin dalla prima scena entriamo in una dimensione tra il sacro e il rituale definita dall’enorme emiciclo sopraelevato in cui il coro canta e sfoglia le pagine di un libro di musica, quello di Filidei, che richiama i riti dei luoghi che possedevano le chiavi del potere non solo ecclesiastico: le biblioteche custodite nella segretezza della censura, aggiornate da schiere di scrupolosi e geniali amanuensi. Percepiamo la sacralità del luogo nel richiamo del canto gregoriano che fa da collante alle molte lingue non solo musicali che costellano l’opera intera, insieme al latino, lingua ufficiale della Cultura. 

Percepiamo subito anche i peccati che si consumano nell’abbazia, sette morti in sette giorni, la carne dei torbidi rapporti tra i monaci, tra anime non pie e giovani affamate, comprate con una manciata di rognoni. Lo vediamo nella Ragazza del Villaggio, lo ascoltiamo nella sua voce di soprano (Katrina Galka), che strofina il suo canto acuto sul saio maschile di tanti bassi e baritoni. Sospettiamo fin dall’inizio che sarà l’assistente del “detective”, il giovane Adso da Melk a cadere nel peccato, perché ha voce di mezzosoprano (Kate Lindsey, molto brava), specchiata e confusa nella Madonna che ingombra la scena del primo atto (“se Dio ha trovato giusto far nascere suo figlio nel ventre di Maria, vuol dire che non considera la donna un corpo del peccato” dirà Guglielmo ad Adso).  

I cori avvolgono di scrittura “antica” – Filidei ha mano sicura sia sulla voce sia nell’antico – gli intrecci del microcosmo sociale e religioso dell’abbazia: un pullulare di lingue e stili diversi, su scansioni e pulsazioni strumentali sorprendenti, anche violente. 

Il nome della rosa era (è) un giallo? No, ma guai a eliminare il filo “poliziesco” che tiene insieme la montagna di sapere che Eco vi riversò. E così è la “Rosa” di Filidei, nonostante che l’opera non sia la forma ideale per raccontare un giallo. Tra slarghi di preghiere, ci scopriamo a inseguire curiosi le indagini di Guglielmo da Baskerville – Lucas Meachem, baritono, bravissimo, molto in parte nel ruolo che per noi ha le spalle larghe e gli occhi di fuoco di Sean Connery (il film di Jean-Jacques Annaud, che lo spettacolo di Michieletto non cita ma nemmeno trascura). Insomma, nel Nome della rosa di Filidei-Michieletto non langue nemmeno la suspence.

E non manca l’erotismo, nell’incontro che Adso consuma con la misteriosa ragazza che non riuscirà a salvare dal rogo, che gli resterà nel cuore per sempre, della quale non saprà mai come si chiama (il nome della Rosa?), confusa con la Madonna, tra le cui braccia va nel primo atto ad accoccolarsi non troppo pudicamente (colpo di genio di Michieletto). Nulla di medievale in scena, fatta accezione per i costumi: solo veli sospesi in uno spazio algido, modernissimo, tutto trasparenze, specchi, visioni ingannevoli, sotto una neutra croce. Alla fine si vedrà perché: l’incendio e il crollo della biblioteca che conteneva il libro vietato, pena la morte per avvelenamento (la Poetica di Aristotele nel suo capitolo sulla commedia, celebrazione del riso come medicina di saggezza), è tutto un cadere di veli. Così Adso tornerà a rivedere l’abbazia da vecchio: un nobile edificio ridotto a “nebbiose rovine del tempo”, per citare un premio Nobel per la letteratura: Robert Zimmerman, detto Bob Dylan.

Lo spettacolo di Michieletto è un capolavoro di astrazione e di concretezza, che non si nega allusioni e simbologie. Lo fanno vivere diciotto personaggi, tra cui cantattori esemplari come Daniela Barcellona, Roberto Frontali, Carlo Vistoli (cito solo loro per brevità), e un’orchestra grande, con imponente sezione percussiva, che Ingo Metzmacher guida con mano sicura, sempre affidabile in ogni linguaggio contemporaneo. 

La musica di Francesco Filidei è varietà, imprevedibilità, incisività, prontezza nel far vorticare situazioni divaricate fra gli estremi del lirismo e della fisicità.
Un anticipo di tanta varietà era concentrato nel concerto della sera prima, sempre alla Scala, con l’Ensemble Intercontemporain diretto da Léo Warynski: cinque pezzi diversi, tre per coro, uniti nell’arte della combinazione (di forme, suoni, citazioni). Soprattutto il Requiem, pezzo del 2020 capace di dire che una messa dei morti può essere perfino divertente oltre che laica (a questo un po’ aveva già pensato Verdi), faceva ascoltare in anteprima alcune soluzioni corali del Nome della rosa (sospiri, battere di mani, sfogliare di pagine fatte suono). 

Francesco Filidei ( foto Jean Radel)

Era anche l’inaugurazione, sabato 26, della monografia che il festival di Milano Musica dedica a Francesco Filidei fino al 6 giugno, eseguendone una parte notevole del catalogo in diversi spazi della città. Da seguire con curiosità e con fiducia, perché tutto si può dire, ma con Francesco Filidei non ci si annoia. 

Foto: Brescia e Amisano @ Teatro alla Scala

Teatro alla Scala: Francesco Filidei Il nome della Rosa. Dirige Ingo Metzmacher, regia di Damiano Michieletto (repliche: 30 aprile, 3, 6, 10 maggio)

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