Luca Micheletti si confronta con il romanzo di Klaus Mann: il risultato è altalenante, ma convince
Se lo slogan «Power is nothing without control» non fosse proprietà esclusiva della Pirelli, lo si potrebbe usare come tagline del Mephisto – in scena fino al 13 dicembre al Teatro Franco Parenti – diretto e interpretato da Luca Micheletti. Questa frase, infatti, è particolarmente ficcante nel descrivere Hendrik Höfgen, vale a dire il personaggio principale del dramma, ricavato dal romanzo omonimo di Klaus Mann; allo stesso tempo è perfetta anche per riassumere simultaneamente alcune delle caratteristiche più e meno felici della regia e delle interpretazioni.
Hendrik Höfgen, il “primo attore d’Amburgo” alla vigilia dell’avvento del nazismo, ha sicuramente il potere inteso come potenza espressiva, cioè l’abilità di far assumere alla sua maschera tutte le sfumature previste da un copione, provocando riso e pianto senza risentire di alcun mutamento interiore. Benché si proclami paladino del buon gusto e rimpianga a posteriori i suoi sbrodolamenti “da guitto”, Höfgen ha talmente interiorizzato lo slancio che lo porta a simulare in qualsiasi momento che talvolta procede per inerzia: si teatralizza anche quando non ha coscienza di se stesso, sia quando viene colto da accessi di delirio che quando viene catturato dall’isteria di fronte ad occhi amici e nemici. Indipendentemente da quello che fa o dice, la sua priorità è di avere un impatto su chi lo guarda, un impatto qualsiasi purché sia potente.
Quello che manca del tutto a Höfgen è il controllo, non tanto su di sé (ridotto a un distributore automatico delle emozioni più contrastanti) ma sulla realtà che lo circonda: tutto quello che accade è solo un’interferenza con le sue performance, ma anche un incentivo a renderle più camaleontiche e rocambolesche; è privo di qualsiasi certezza che non sia quella di dover dar sfogo alla propria vocazione nella maniera più tonitruante e non c’è nessuna convinzione politica che gli si confaccia più delle altre; tutto – ma proprio tutto – va bene purché il suo narcisismo possa imperare.
A Höfgen manca il controllo inteso anche come preveggenza: percepisce il mutamento dei tempi sempre parecchio dopo chi lo circonda, talmente è concentrato sulla sua maschera e sui suoi teatrali stati di incoscienza. Quando la sua primadonna Lotte riesce a fargli comprendere la necessità di dover aderire al nazionalsocialismo per portare avanti la propria arte, lui si prende giusto qualche minuto per mettere in scena il proprio dissidio interiore. Poi, con la consueta assenza di sforzo dovuta all’esercizio alla simulazione, si limita a trasferire la sua preziosissima maschera da una divisa all’altra, da un corpo che fa il saluto comunista a un altro corpo che fa il saluto nazista.
Ma anche la sua adesione al nazismo è sempre e soltanto qualcosa che gli è capitato, un’interruzione della performance che lui ha saputo gestire al meglio per produrre il massimo impatto possibile.
Höfgen non può esistere se non sotto il dominio di qualcun altro, che sia la ballerina nera che incarna il ruolo della dominatrix nei suoi intermezzi sessuali oppure il Generalissimo che viene a riscuotere la sua obbedienza dopo la sua nomina alla carica di Intendente del Teatro di Berlino. Höfgen e il Generalissimo si concedono un siparietto in cui incarnano alternatamente Faust e Mephisto: ma chi è il tentato e chi è il tentatore? È l’Arte che ha bisogno del Potere (inteso stavolta come controllo) o viceversa? Se il Potere desidera di tutto cuore la lusinga, l’Arte ha invece la necessità di estraniarsi, di vivere solo per se stessa dimenticandosi quanto più spesso possibile di quello che la circonda. Tutto quello che Höfgen vuole è di non dover mai decidere per se stesso.
Luca Micheletti risente dei problemi del suo personaggio: ha l’atletismo che gli consente di essere una vera macchina che può produrre ogni intonazione e ogni posa, ma il suo decathlon attorale di tanto in tanto manda in apnea lo spettatore… il che è sicuramente un effetto desiderato per testimoniare l’inesistenza del vero Höfgen, che non può esistere senza estenuanti mutamenti, però che stanchezza! La sua controparte femminile, Lotte, è un personaggio più sfumato, che ogni tanto apre uno squarcio sul suo vero io (per riapparire subito dopo più mostruosa che mai) e di questo si avvantaggia Federica Fracassi, anche lei atletica ma in maniera più tormentata e meno avventurosa.
Complessivamente, se il Mephisto di Micheletti ha il potere/potenza, talvolta è il controllo sugli effetti della messinscena che ha qualche cedimento, specialmente nella prima parte, forse più “bombarola” del necessario. Ma è specialmente nella seconda parte che lo spettatore ha modo di convincersi di assistere a uno spettacolo in cui l’orrore, per quanto molto “spiegato”, è davvero avvincente.
(Per i video si ringrazia Centro Teatrale Bresciano, la foto è di Umberto Favretto)