Butterfly delle origini

In Musica, Teatro

La Butterfly “delle origini”, fischiata nel 1904, protagonista della prima alla Scala: quattordici minuti di applausi, è vero, ma noi abbiamo qualcosa da dire…

Riesumata da fischi e dileggi del 1904, la Butterfly delle origini è stata vista su Rai1 da un italiano su cinque. Più che una riabilitazione, confermata alla Scala con poco meno di un quarto d’ora di applausi: cinque minuti in più dello scorso Sant’Ambrogio di Giovanna d’Arco. Evidentemente a un Verdi sconosciuto e «brutto» – ma non è vero – il pubblico ha preferito le memorie musicali di questa geisha suicida. Protagonisti ovviamente Riccardo Chailly, il regista Alvis Hermanis e Maria José Siri per il title role, fragile farfalla in balia di sentimenti ben più grandi dei suoi quindici anni.

 

Quattro le versioni ufficiali dell’opera, ma sono molte di più, visto il numero di tagli e riaperture che senza sosta Puccini imponeva o si lasciava imporre. Così si diffondono ancora voci sulle insicurezze del compositore, rispetto per esempio alla volontà di Verdi, sempre e solo “di potenza” – ma che a sua volta non si risparmiò rifacimenti. Invece potrebbe trattarsi di una diversa disponibilità delle opere di Puccini, duttili anche sopra a quel letto di Procuste che sono i teatri: ciascuno con le sue differenze, il suo palco, il suo pubblico, le sue esigenze e aspettative. Ecco quindi che parlare di una Madama Butterfly autentica o definitiva perde subito di significato. Ma Chailly non commetterebbe certo un simile errore.

 

I cambiamenti rispetto alla versione di solito eseguita sono tantissimi e ci si diverte ad ascoltare l’opera indovinando i versi aggiunti, le scene mai sentite: gli interminabili inchini di Pinkerton ai parenti serpenti della sposa, lo zio ubriacone Yakusidé, il finale con la nuova moglie Kate, ancora più struggente in questa versione di dignitoso confronto al femminile. Ma soprattutto è piacevole lo straniamento nell’ascolto delle solite arie con le parole cambiate: come un Via col vento concluso con «Domani andrà meglio».

 

Chailly dirige mettendo a fuoco un’infinità di dettagli timbrici e ritmici. A sorpresa gli slanci sinfonici sono limitati, rispetto per esempio alle esperienze di Turandot o più ancora di Fanciulla del West. Insomma un’esecuzione impeccabile, raffinata, perfino attuale, ma trattenuta e non molto coinvolgente. Non si corre il rischio di cadere nel sentimentalismo, ma al suo terzo Puccini in Scala dovremmo aver capito che Chailly non è interessato alla sensualità dei fraseggi, quanto al controllo analitico sulla partitura, asciugata da retaggi melò e lucidamente à la Varèse.

 

Non emoziona nemmeno il disciplinato spettacolo di Hermanis, esteriore e decorativo ma in crescendo. Ricchezza zeffirelliana soprattutto nel primo atto, quello del colore e del bozzettismo giapponese, con magnifiche parrucche e kimoni di Kristine Jurjāne. L’entrata di Butterfly è accompagnata da mimi-geishe in grande attività kabuki a metà di una casa giapponese di tre piani, tutta paraventi e porte scorrevoli – le scene sono di Leila Fteita e dello stesso Hermanis. Lo zio Bonzo spunta a rinnegare la nipote come verde creatura draghiforme dall’alto dell’ultimo piano. Ma il primo atto è noioso e con poca regia, che tende a zero durante il lungo duetto d’amore.

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Poi si entra nel salotto pieno di vane speranze della sposina abbandonata, e già qui c’è un’atmosfera più da teatro di prosa, ricordo di quel realismo esasperato di cui è maestro Hermanis. E ancora un giardino di ciliegi, fiori rosa, fiori di pesco trasportati in proscenio, dove in effetti avviene tutta la statica messinscena, movimentata un poco da proiezioni e coreografie. Bello il suicidio finale, assistito, con un gruppo di geishe a raddoppiare pensieri e intenzioni della protagonista, ormai disgregata dopo due atti di insopportabile compressione, la stessa espressa su tutti i manifesti sparsi per la città dal meraviglioso scatto di nuca femminile con cuffie.

«Brava la Siri», si vociava in foyer prima, durante e dopo. Ed è vero. Vigorosa Cio-Cio-San con timbro concreto, interessante nei declamati più che nei legati: efficace il lapidario «Con onor muore chi non può serbar vita con onore» prima dell’aria finale. Forse è una scrittura un po’ bassa per lei, ma l’interpretazione è più convincente rispetto alla sua recente Norma di Macerata. Meno memorabile il tenore americano Bryan Hymel, così non manca troppo Addio fiorito asil – se esiste qualcuno a cui manca l’aria del pentimento di Pinkerton. Sempre personaggio Carlos Alvarez, Sharpless di esperienza, commosso e commovente nella scena a due con la lettura esitante della lettera, tra le più belle di Puccini. Ma la migliore è Annalisa Stroppa, Suzuki che ha incorporato mosse ed espressioni di una tradizione teatrale lontanissima – non escluderei antenati giapponesi – a conferma che Hermanis è teatrante migliore di così.

Ottimi i comprimari: Carlo Bosi, Leonardo Galeazzi, Abramo Rosalen e Nicole Brandolino, rispettivamente Goro, Yakusidé, Zio Bonzo e Kate Pinkerton. A bocca chiusa, ma ugualmente espressivo, il coro di Bruno Casoni.

Madama Butterfly, di Giacomo Puccini, Teatro alla Scala 

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