L’impossibile finitezza dell’infinito nei quasi cent’anni di Arnaldo Pomodoro.

In Arte

Due giorni fa si è spento a Milano Arnaldo Pomodoro. Ieri avrebbe compiuto 99 anni. La redazione Arte di Cultweek saluta un Artista che, piaccia o meno, ha lasciato una traccia indelebile nell’arte del secolo quasi intero della sua esistenza.

Arnaldo Pomodoro è morto a Milano il 22 giugno, a un giorno esatto dal suo novantanovesimo compleanno. Un numero che somiglia a una cifra tonda sbagliata di un soffio, come una firma che sfugge, un’opera incompiuta, un’ultima forma da plasmare nel tempo. Con lui se ne va uno degli scultori italiani più riconoscibili (e riproducibili) del secondo Novecento, autore di un immaginario potentemente seriale che ha conquistato piazze, università, musei, navi da crociera, consigli di amministrazione e cortili ministeriali in ogni angolo del mondo.

Arnaldo Pomodoro con Lucio Fontana nel 1954

Eppure, agli inizi, Pomodoro era tutt’altro che istituzionale. Nato a Montefeltro e poi cresciuto a Pesaro, dove lavora da giovane come tecnico del catasto, si avvicina all’arte seguendo la linea tracciata da Lucio Fontana, che ne intuisce le potenzialità e lo introduce alla cerchia milanese dei grandi riformatori dell’arte italiana del dopoguerra. Lì, tra pittura informale, nuovi materiali e il superamento del concetto tradizionale di opera, Pomodoro trova la sua cifra: una scultura che si propone come forma primaria in lotta con se stessa. Le sue prime sfere, infatti, sono integre solo in apparenza. Tagliate, incise, svuotate, corrose da dentro, lasciano intravedere ingranaggi, strutture interne, ipotesi di catastrofe, forse di rinascita. Sono gli anni Sessanta, e Pomodoro – assieme al fratello Giò, scultore anche lui, e agli amici Baj, Manzoni, Scanavino – prende parte a quella rivoluzione linguistica che vuole distruggere la forma per inventarne una nuova. Ma presto qualcosa si incrina, dentro e fuori dallo studio. Il rapporto tra Arnaldo e Giò si fa difficile, segnato da divergenze profonde, artistiche e personali, che con il tempo diventeranno insanabili. Due visioni del mondo e dell’arte che non riescono più a dialogare, due traiettorie che, pur partite dallo stesso punto, si allontanano.

Arnaldo Pomodoro, Sfera n.1, 1963, bronzo, diametro 120cm
foto Aurelio Barbareschi, Courtesy Palazzo Reale, Milano

Nel frattempo, l’opera di Arnaldo prende una direzione sempre più monumentale e riconoscibile. La sua Sfera con sfera, declinata in innummerevoli varianti, diventa un’icona globale: collocata al centro del potere Vaticano, davanti all’ONU, nel cortile del Palazzo di Vetro come in quello della Farnesina, assume il ruolo di emblema universale. Un oggetto perfetto e al tempo stesso corrotto, che mostra la sua ferita come parte integrante del suo equilibrio, ripetuto quasi all’infinito con differenze minime che faranno la gioia delle fonderie che, con un unico modello modificato dopo ogni produzione, hanno campato per decenni. Ma in quella ripetizione ossessiva del medesimo modulo – sfera, colonna, disgregazione del solido – c’è qualcosa che resiste. Un’idea di perfezione impossibile da raggiungere, che va incrinata proprio per diventare significativa. È il gesto di chi, dopo l’astrazione, cerca un’iconografia universale che parli a tutti, anche a costo di svuotarsi del proprio contenuto originario. In questo senso, Pomodoro ha saputo incarnare meglio di chiunque altro il paradosso dell’arte pubblica: essere insieme monumento e simulacro, segno e logo, memoria e decorazione.

Arnaldo Pomodoro, Sfera con sfera, 1989-1990,  Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cortile della Pigna, particolare, © ItalyGuides.it

Negli ultimi vent’anni, però, qualcosa si è rimesso in moto. La Fondazione Arnaldo Pomodoro, creata a Milano nel 1995 e pensata inizialmente come centro espositivo, è diventata con il tempo un archivio vivente, un luogo di studio e produzione, capace di valorizzare tanto la dimensione progettuale dell’artista quanto la sua apertura ai giovani e alla sperimentazione. Il Labirinto – opera permanente e ambientale, nascosta nei sotterranei dell’edificio della Fondazione – è forse il suo vero testamento. Non più sfera, non più superficie, ma percorso da attraversare: buio, stretto, fragile, fatto di pareti e rilievi, lettere e simboli, reminiscenze egizie e sogni di civiltà future. Una macchina visiva che ricorda quanto l’arte, anche quella più istituzionalizzata, così come la vita, non sia che un viaggio sperimentale fatto involontariamente, per dirla con Pessoa.

Il labirinto di Arnaldo Pomodoro, courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano

Arnaldo Pomodoro ha attraversato il Novecento e ne ha modellato, in senso quasi letterale, le forme. Ha saputo essere popolare e sofisticato, celebrato e discusso, inserito e mai davvero pacificato. Come il labirinto, anche la sua figura non si lascia afferrare subito. Ma è proprio lì, nel non detto, nel conflitto, nella ripetizione e nella rottura, che l’opera di una vita trova il suo senso. Come lo trova in quel secolo quasi intero, in quei 99 anni meno un giorno che, come le sue sfere levigate ma incomplete o come nel buio profondo dietro un taglio di Fontana, lascia giusto lo spazio per sbirciare nella profondità e l’inquietudine dell’esistenza. Con l’amara consapevolezza dell’impossibile finitezza dell’infinito.

In copertina: Arnaldo Pomodoro nel 1992 in occasione della Laurea al Trinity College di Dublino. Courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro

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