Letti ieri, letti oggi (18): Il bacio della donna ragno

In Letteratura, Weekend

Rileggere oggi ‘Il bacio della donna ragno’ è come ricordarsi che esiste un antidoto a certezze affrettate, alla tendenza alla semplificazione e alla facile riduzione in categorie. E che l’umano ha bisogno, sempre e comunque, di parole per dirlo. Ottime ragioni per riprenderlo in mano, di questi tempi

Quando per primo un uomo dedicò del tempo a realizzare qualcosa di non immediatamente utile, si compì uno scatto di non ritorno per l’intera umanità.

In un mondo che possiamo supporre non certo più facile di quello di oggi, quel gesto – l’impressione delle proprie mani su una parete, la riproduzione della silhouette di un animale da affrontare nella caccia, levigare una forma in un pezzo di pietra – fu una rivoluzione grandiosa, epocale quanto la scoperta del fuoco, della coltivazione, e, più tardi, della scrittura: per la prima volta, l’essere umano stava sentendo l’esigenza di formare una immagine di sé, da lasciare “dopo” e verso la quale poter tornare a guardare.

Stava, cioè, iniziando a parlare alla propria anima – diventando umano.

Rileggere oggi Il bacio della donna ragno, pubblicato da Manuel Puig a Barcellona nel 1976, nel pieno della guerra sucia e subito bandito in Argentina, patria dello scrittore, dalla Giunta Militare, equivale a interrogare di nuovo quel primo gesto della storia umana, ovvero chiedersi a che cosa servano oggi le cose che, apparentemente, non servono.

Lavoro maturo, pubblicato solo tre anni dopo The Buenos Aires affair, il libro sul quale si consumerà la frattura tra Puig e il regime argentino e che gli costerà un esilio dal quale lo scrittore non tornerà mai indietro, Il bacio della donna ragno gode a un tempo del dolore e della liberazione di quella precedente frattura: Puig non ha più nulla da perdere e non deve più fare i conti con la censura. Ormai è un fucilato culturale, e perciò può permettersi tutto: anche mettere in scena la storia di personaggi che, come lui, sono oltre la marginalità, sono quello che la dittatura considera come mugre, il lerciume sociale.

Ci sono, dunque, due uomini, in questa storia, chiusi dentro a una stessa cella.

Diversi sono i motivi che li costringono ristretti, differente ciò che si aspettano, antitetico il loro modo di stare al mondo.

Valentín Arregui ha 26 anni ed è un detenuto politico. È uno di quelli che pensano che prima dei sentimenti debbano stare gli ideali, e di sé mostra, prima di tutto, l’impegno:
-Il piacere più grande è un altro, sapere che sono al servizio di quanto c’è di più nobile, che è… beh… tutte le mie idee.

Come sarebbe le tue idee?

– I miei ideali… il marxismo, se vuoi che ti definisca tutto con una parola. E questo grande piacere posso sentirlo ovunque, persino in questa cella, e perfino sotto tortura. Questa è la mia forza.

E la tua ragazza?

– Anche questo deve essere secondario.

Idealista, giovane, spavaldo come solo chi sta lottando contro la propria paura può essere, coraggioso,  controllato e sospettoso fino alla paranoia, Valentín ha tutti i tratti dell’eroe virile, e la sua testa è abitata dal machismo e dalle rigidità del guerrigliero politico. Concentrazione è per lui sopravvivenza: ai ricordi di ciò che ha perduto che possono disgregare la sua convinzione, alla tentazione di cedere, alla successiva sessione di tortura.

Quanto a Molina, di undici anni più vecchio, Molina è tutta un’altra storia. C’è una madre, nella sua vita, ed è naturalmente un legame forte, fatto di elusioni delicate che la condanna e la galera hanno reso vane, di preoccupazioni a distanza, di senso di colpa. E il crimine per cui Molina è finito in carcere (una condanna di otto anni) non ha nulla di ideologico, accusato com’è di avere sedotto un minore.

Cinema, buon cibo, musica, compagnia allegra, eleganza: il gusto della vita, di tutt’altro sapore rispetto a quello che il suo compagno di cella si è imposto, è per Molina permettersi i piaceri minori; un lusso che considera irrinunciabile, perché la società e il tempo in cui vive hanno richiesto molto da lui: non poter essere quello che è, non poter manifestare quello che sente, dover pubblicamente rinunciare alla propria identità sessuale, amare nell’ombra ed essere rubricato in una categoria che il regime odia sbeffeggia ed incita a disprezzare, quella dell’omosessualità.

Cosa c’è di male se uno è debole come una donna? Perché un uomo o chiunque, un cane, o una checca, non può essere sensibile se ne ha voglia? (…) Se tutti gli uomini fossero come le donne non ci sarebbero torturatori.

Struggente come un abbandono. Ma anche claustrofobico, ossessivo fino a rasentare la verbosità, e delicato, Il bacio della dona ragno di Manuel Puig è il libro dello smottamento emotivo.

Il suo è il racconto di una trasformazione che lentamente si impadronisce di entrambi i personaggi: due uomini che non si conoscono (uno che insegue la propria definizione nella costruzione di un ideale, l’altro che deve nascondere il proprio sentire in spazi esistenziali di risulta) si trovano costretti nella restrizione a condividere tempo, aria, silenzi.

Sbilanciato è il loro ruolo politico, sbilanciato il grado di considerazione sociale. Entrambi sono nemici per il sistema che li ha incarcerati, ma uno ha la dignità dell’antagonista politico (e infatti conserva il proprio nome, Valentín, per tutta la narrazione), l’altro non è neppure più Luis Alberto, ma semplicemente Molina, un cognome, un mezzo uomo da cui esigere distacco, un negletto da circoscrivere, un errore umano da disprezzare o (al massimo) da usare. Non si ride, infatti, degli omosessuali? Non vanno forse compatiti, ridimensionati, blanditi nella loro pochezza? Anche Valentín non fa eccezione: nei confronti di Molina, la sua sufficienza sprezzante lo rende inizialmente omologo a quella mentalità che tanto combatte, perché ne ha assorbito gli stessi comportamenti pregiudiziali.

Duro, sbrigativo, supponente, Valentín non perde una occasione per rimarcare le differenze, per pungolare, e un poco per tiranneggiare il compagno di cella, con l’aggravante dell’esasperazione di uno che non ha potuto scegliere e si trova costretto a condividere con quello sconosciuto la medesima condizione dell’esproprio della libertà.

Cosa rimane quando si ha perso tutto? Resta, solo, la possibilità della parola – dunque, della relazione; dunque, dell’umanità.

Ed è proprio qui che la bilancia si ribalta.

Valentín, l’irriducibile, il monaco laico che si costringe a non amare del tutto perché il rischio di contrarre la paura metterebbe a repentaglio la sua intraprendenza rivoluzionaria, che studia e ristudia i suoi ideologi nel tempo nullo del carcere, è nettamente in svantaggio.

Il suo tempo è una pietra, una parete liscia e verticale su cui non si procede.

Molina, invece, l’antitesi del coraggioso, il cedevole, l’umiliato, conosce altro: le storie dei film, i testi dei vecchi boleros, i versi dei poeti – gli strumenti per attraversare il tempo, per farlo trascorrere, per dare cibo all’immaginazione; dunque, in definitiva, per continuare ad esistere.

Così, mentre i dialoghi procedono (e l’assenza di un narratore confonde volutamente le voci nella mente di chi legge, per cui occorre sempre sforzarsi per distinguere chi dice cosa, quasi ci si trovasse a sintonizzarsi da fuori, a dover raffinare l’attenzione su quello che sta accadendo in quella cella), l’antica alchimia dell’affabulazione, la medesima dei cantori omerici, si fa spazio tra le pagine segnando il destino dei due protagonisti.

Cosa altro è, infatti, questo gioco del racconto di cui Molina tira e allenta le fila notturne, se non la riproposizione contemporanea del ben noto esorcismo di Sherezade nel tenere lontana, luna dopo luna, storia dopo storia, la morte?

La parola evoca, la parola cambia, la parola seduce e tormenta: Valentín ne percepisce il pericolo potenziale, Molina ne conosce la magia.

Così colui che desidera un nuovo racconto è anche colui che tenta di dominarlo (vietato parlare di donne, vietato parlare di cibo) e impone al suo personale aedo il perimetro delle fantasie suscitabili – perché il demone, una volta aizzato nella testa, da benefico fa presto a diventare distruttivo, e questa per Valentín è una paura tangibile.

Mentre il tempo si fa trascorrere, però, la parola si tira dietro l’emersione dei sentimenti. Molina racconta: vecchi film di Joan Crawford, storie inventate, perfino pellicole del regime nazista che edulcora per pascersi del loro irresistibile glamour. Rispetta i vincoli che gli sono imposti, e però fa balenare il di più, l’oltre – e Valentín, lentamente, spogliatosi della sua armatura analitica, si fa infine condurre, ipnotizzato, e arriverà a considerare la possibilità di essere altro da sé.

Lirismo esibito e momenti di scrittura secca, chirurgica, sventrata da qualsiasi possibilità poetica, sceneggiature cinematografiche raccontate, sogni che rasentano l’allucinazione, pezzi di interrogatori, dialoghi nei quali l’azione è ridotta a zero o è appena successa, rapporti di polizia: l’accumulazione di materiali diversi, semplicemente accostati tra una pagina e l’altra, costringe chi legge a ridimensionare ogni volta il luogo, il contesto, il registro. Eppure non si rischia di sbagliare: l’ambiguità che Puig usa è raffinata, e mescola soltanto lì dove c’è da mescolare, dentro la cella, dove si va compiendo una metamorfosi doppia, arrivando a svelare quanto l’orgoglioso studente e il reietto ad alto tasso di tradimento in fondo si assomiglino, corrispondano, siano due di uno.

Chi è l’eroe, cosa è il coraggio, chi tradisce chi, che vuol dire resistere sono interrogativi che trasmigrano dall’uno all’altro, e di Valentín e Molina ruolo e perimetro mutano quanto più l’indagine sul confine dell’identità si addentra nella loro intimità, proiettata sui personaggi dei film, soprattutto femminili: ciò che desiderano è ciò che sono, e ciò che sono è qualcosa di molto complesso, di doppio, di vivo nella misura in cui anela comporre l’antica primitiva unità.

In filigrana c’è, naturalmente, la non trascurabile questione che nulla è innocente in questa storia: entrambi i personaggi sono ostaggio di un gioco più grande di loro. Non è casuale il fatto che si trovino insieme in quella cella, ma frutto di un calcolo ragionato: la libertà e il privilegio in cambio dell’estorsione di notizie. Molina ne è il fulcro: il regime lo vuole sfruttare, Valentín ne vuole diffidare.

Ma lo straordinario personaggio creato da Manuel Puig non accetta di essere ridimensionato; il primo tradimento che compie è quello nei confronti di ciò che pregiudizievolmente la società del regime pensa impone e propaganda a proposito degli omosessuali. E proprio questo suo non arrendersi al ridicolo, alla grossolanità da barzelletta e allo spregio è il peccato che non venne perdonato al libro di Puig.

Luis Alberto Molina è un uomo che pensa, che sente, e che ha una umanità talmente forte da risultare perturbante. E la cosa più potente è che questa induzione al dubbio a cui porta il lettore è condotta con una delicatezza virile che ne fa un personaggio difficilmente dimenticabile.

Sarà la morte, non a caso, a suggellare con un ennesimo cambio di ritmo incrociato, il definitivo ribaltamento delle coscienze: a Valentín tocca il deliquio in una allucinata liberazione di sentimenti, a Molina il colpo di reni verso la scelta eroica, consumata a tratti rapidi e noir.

L’antica unità platonica viene così, idealmente, ricomposta.

Rileggere oggi Il bacio della donna ragno è come ricordarsi che esiste un antidoto a certezze affrettate, alla tendenza alla semplificazione e alla facile riduzione in categorie.

Di più, ancora.

Se è vero che i linguaggi artistici, i libri, i sentimenti sono stati spesso chiamati a dovere dare conto di sé, non è oggi una questione di immoralità o di degenerazione, né di eccesso o di ambiguità – come quando il libro di Puig uscì – a metterli in croce. Qualcosa di molto più profondo si sta muovendo, e punta a lavorare direttamente sulle radici stesse del sapere. La lente attraverso cui la società economica alza o abbassa il proprio pollice è quella dell’utilità, e il fodero nel quale questo occhio di vetro sta deposto è l’immediatezza.

Dunque il magnetico esercizio del racconto di cui Manuel Puig dota il suo Molina è in realtà una sorta di meccanismo dubitativo che arriva a minare all’interno il sillogismo che sposa l’utile come necessità all’utile immediato come unico bene.

Così come il Levi di Se questo è un uomo, ristretto e brutalizzato in un campo di concentramento, si aggrappa ai versi del canto di Ulisse per ricordare, attraverso Dante, chi è stato – dunque: chi è -, così il banchetto quotidiano di storie che Molina imbandisce per Valentín (e attraverso il cambiamento di Valentín, di riflesso, anche per sé stesso) è insieme un enorme atto di pietà e di coraggio, perché rivela l’inscalfibile necessità umana di continuare a immaginare, e dunque a desiderare, per seguitare a dare un senso all’essere ancora vivi.

Se c’è un motivo per cui interrogare oggi Il bacio della donna ragno di Manuel Puig è proprio questo.

A cosa servono le parole inutili, cioè, se non a dare forma e senso all’esperienza umana per resistere proprio in quelle situazioni estreme, di estrema solitudine, in cui l’uomo si trova condannato a stare solo e soltanto in compagnia di sé stesso.

È proprio questo il momento in cui occorrono risorse che gli facciano capire che la sua esperienza è qualcosa, che il suo passaggio è più di nulla, che lo confortino.

Parole che in ultima analisi gli ricordino la libertà di capire, scegliere e avere responsabilità per la propria vita.

 

 

Immagine di copertina: Book opera. El Ateneo Grand Splendid bookstore. Santa Fe 1860, Buenos Aires, Argentina © Eduardo Zárate

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