Letti ieri, letti oggi (17): La festa del caprone

In Letteratura, Weekend

Rileggere alla luce o al buio della storia che cambia: quanto è girato il vento in America Latina tra l’inizio del duemila, momento di speranze nascenti, e oggi quando le destre, a cominciare da Bolsonaro in Brasile, tornano al potere? E così riprendere in mano ‘La festa del caprone’ di Vargas Llosa provoca l’inquietudine di chi vive tempi oscuri e teme il ritorno di un passato che si sperava archiviato

La prima volta che ho letto La festa del caprone di Mario Vargas Llosa era il 2002. Lula era da pochi mesi il nuovo presidente del Brasile, mentre il governo di Ricardo Lagos guidava il Cile verso la fase più decisiva della transizione post dittatura e Hugo Chavez già da tre anni portava avanti quella rivoluzione bolivariana che avrebbe dato per oltre dieci anni speranze al Paese. I regimi che si erano accaniti sui Paesi del Cono Sur negli anni Settanta erano terminati per morte naturale e per il fallimento delle politiche, e anche in Centroamerica le dittature erano un ricordo sempre più lontano: in Nicaragua la contras aveva abbandonato il campo alla fine degli Ottanta e in Guatemala la trentennale guerra tra guerriglia comunista e stato si era conclusa con gli accordi di pace del 1986. Non tutti i Paesi erano, in quel 2002 a guida di sinistra, però lo spirito di ricostruzione della struttura civile e sociale era in quegli anni il principale sentimento che, pur tra difficoltà e ostacoli, dettava la linea nel Subcontinente.

Dall’osservatorio di una Europa pacificata ormai da più di cinquant’anni, forte di molte conquiste sociali e civili che dava per scontate, le dittature apparivano come una anomalia superata, una esperienza patologica frutto di molte cause che si andavano dissolvendo con la fine della guerra fredda, da esaminare e ricordare più per dovere storico che per paura che si ripetessero. Le dittature si era capito cos’erano, il popolo si era vaccinato, il futuro era una società che non ci sarebbe ricascata. Il romanzo di Vargas Llosa, uscito in Italia nel 2000, è la ricostruzione romanzata dell’attentato che mise fine alla vita e al trentennale regime del dittatore dominicano Leonidas Rafael Trujillo e, benché la prima volta che l’ho letto lo avessi trovato molto bello non mi aveva provocato inquietudine come in questa seconda lettura, semmai l’orrore distaccato per fatti che appartengono alla storia, e che vedi come lontani, fantascientifici. Anomalie, insomma, che non scatenano meccanismi di identificazione.

A distanza di sedici anni, le cose sono cambiate. Non che ci siano dittature in America Latina, e forse non torneranno mai, ma quella strada fatta di speranza e grandi passi avanti ha preso di colpo un’altra piega. Governi promettenti come quello di Ortega e di Chavez sono progressivamente regrediti a regimi mentre in Colombia, Argentina, Cile e Brasile le destre sono tornate al governo in un crescendo che va da quello contestabile ma civile di Sebastian Pinera alla terrorizzante guida del Brasile di Jair Bolsonaro, uno a cui la propaganda avversa rende torto per difetto: nostalgico della dittatura e fautore della mano dura soprattutto con i neri e i poveri, acclamato dalla polizia in una cerimonia che ha fatto venire i brividi ai più moderati. L’uomo, insomma, su cui si appuntano speranze e rancori di una destra in gran parte brutale e razzista, omofoba e misogina che sotto i governi Lula e Rousseff aveva dovuto ingoiare troppi rospi, intesi come conquista di civiltà. Sarà che quelle conquiste vacillano, sta di fatto che anche se non c’è una dittatura né probabilmente niente che le somigli succede che il cittadino mediamente informato non dia più per scontato niente, e che un regime o un governo molto autoritario ti sembri possibile, diventi una eventualità. E insomma acuisci i sensi, diventi ipersensibile a quello che racconta il libro, ti scatta l’empatia con le vittime e con i perseguitati e perfino con chi a Trujillo è rimasto legato non si sa perché.

Dunque, il dittatore governa la Repubblica Dominicana con i metodi brutali di un terrificante stato di polizia e un carisma personale che addomestica le coscienze anche dei più coraggiosi, manipola e distrugge ego e autostima perfino dei più stretti collaboratori che umilia con sadismo, insultandoli con qualunque pretesto e raccontando loro le prodezze sessuali delle mogli con cui va a letto senza che nessuno abbia il coraggio di opporsi. Sbriciola l’opposizione con il terrore e le torture, forte di un sadico capo dei servizi segreti intelligente e devotissimo e della crudeltà non solo sua ma dei suoi adepti, che ha trasformato in cortigiani e la cui unica missione nella vita è compiacere il Capo, il Grande Benefattore, il Generalissimo e la sua famiglia, dalla Prestante Dama sua consorte (una prostituta avida e cattiva che ha sposato molti anni prima) ai debosciati figli a cui ha dato nomi d’opera come Ramphis e Ramsete: psicopatici che dilapidano il patrimonio del padre il quale, invece, è un lavoratore indefesso, pieno di energia anche a settant’anni, l’età a cui verrà ucciso da un gruppo di uomini che ha deciso di unirsi al complotto per motivi diversi. Benché siano stati all’inizio tutti ferventi trujillisti, quasi fanatici, si sono progressivamente disamorati al Capo: come il fedelissimo assistente cui lui impedisce di sposare la donna che ama perché sorella di un comunista e gli richiede coma prova di lealtà di uccidere il fratello, bendato e in ginocchio. O come il generale che viene umiliato e trattato da codardo in una cena pubblica perché si era rifiutato di giustiziare un nemico a freddo. Molto ben scritta e ben descritta la fase successiva alla morte di Trujillo, il passaggio da una dittatura che sembrava accettata a una lentissima democrazia che sveglia i cittadini dallo stato di letargo, “spezzando l’incantesimo che aveva tenuto tanti dominicani legati corpo e anima a Trujillo”, sedotti in parte da quello sguardo a cui l’autore torna spesso e di cui tutti sono testimoni. Anche coloro che erano convinti fosse una leggenda fino quando non capitava loro di incrociarlo e lì capivano che era tutto vero, “era uno sguardo al quale nessuno poteva resistere senza abbassare gli occhi, annullato dalla forza che promanava da quelle pupille taglienti, che sembra leggere i pensieri più segreti, i desideri e gli appetiti occulti, che faceva sentire nude le persone”.

Romanzi su caudillos non sono nuovi nella letteratura latinoamericana, ma quello di Vargas Llosa è geniale nel ripercorrere i meccanismi che scatenano nel lettore l’avversione per quel protagonista che non ha nemmeno l’attenuante del realismo magico come il tiranno dell’Autunno del patriarca, ma è un damerino civilizzato che si vergogna della sua origine popolare e haitiana e la nasconde dietro gli abiti azzimati e le case grandiose e kitsch. Trujillo è odioso e repellente sempre, non c’è un momento in cui scateni compassione. Lo si detesta per il cinismo e la totale assenza di umanità ma soprattutto per il modo in cui ha trasformato gli uomini più intelligenti della sua epoca in lacché terrorizzati con cui utilizza la regola del divide et impera e che si scannerebbero per un suo sorriso. Si odia Trujillo per come in teoria potrebbe ridurre noi. Romanzo modulare, in cui la voce del narratore si alterna a quella di Urania Cabral, la figlia di un senatore e uomo di punta del regime caduto in disgrazia e che torna nel suo Paese dopo 35 anni per chiudere i conti con un passato personale doloroso, La festa del caprone è un meraviglioso, profondissimo racconto sui meccanismi del potere e sulla sopraffazione, e sullo squallore in cui scadono i rapporti umani all’interno di contesti alterati.

E più si avvicina nella nostra percezione la possibilità anche vaga che quel contesto alterato torni, più questo romanzo turba e fa riflettere.

 

Immagine di copertina: Argentina: Memória da Ditadura – 24 de Março #Coluna Seu Guevara 

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