Il viaggio di Luca Molinari dentro il nostro multiforme abitare: dalle case dei Tre porcellini al cellulare di chi prende il mare su un barcone passando per Le Corbusier e Mies van der Rohe, tra appartenenza e architettura
L’ultimo libro di Luca Molinari Le case che siamo ha un incipit irresistibile e delizioso: racconta la storia dei Tre Porcellini.
Ormai siete grandi, figlioli miei, è tempo che andiate a costruirvi una casa tutta vostra – dice la mamma – , ma attenti a non fare entrare il lupo! Vi prenderebbe per mangiarvi! Il porcellino più piccolo si costruisce in un momento una casa di paglia; il secondo se ne costruisce una di legno e ci lavora tutto un giorno per renderla bella resistente; il Porcellino Grande si impegna duramente per costruirne una di mattoni. Arriva il lupo. Soffia sulla casa di paglia, brucia quella di legno e divora i due porcellini più piccoli, ma quando arriva alla casa di mattoni, non riesce a distruggerla. Decide allora di calarsi dal camino, ma il Porcellino Grande, previdente ci aveva messo sotto un pentolone d’acqua bollente, così il lupo cattivo ci finisce dentro.
La favola dei tre porcellini è uno dei racconti di architettura più esemplari che si conoscano ed è insieme metafora delle virtù borghesi del buon costruire
Solida, razionale, la casa del Porcellino Grande è il prototipo elementare della villetta borghese che avrebbe invaso le periferie ancora verdi delle città di mezzo mondo ed è insieme la rappresentazione di un’idea di casa non più urbana, ma isolata, autosufficiente, un bastione per la privacy famigliare contro un esterno minaccioso e alieno.
Questa casa che amiamo, in cui ci rispecchiamo, in cui ricostruiamo un nostro universo più stabile rispetto a una quotidianità fatta di continui cambiamenti, tendiamo a darla per scontata, non riflettiamo sul suo significato, sulle sue trasformazioni. E così Molinari passa in rassegna una serie di modelli in trasformazione, contraddittori e di difficile lettura.
C’è l’esempio tragico della casa mancata, il miraggio dei profughi, che sul barcone stringono stretto solo un misero cellulare: in quella scatolina di plastica c’è tutta la loro vita, i ricordi, gli affetti, la casa che hanno lasciato.
C’è poi la casa Ikea, alla portata di tutti, della happy family: tutto ben coordinato, pulito, anonimo, l’equivalente in arredamento del Mulino Bianco in pasticceria, un’immagine rassicurante, fasulla che è riuscita a togliere sensualità persino a una sex-bomb come Antonio Banderas.
C’è la casa come bene rifugio, come scena del delitto, come nascondiglio di un oscuro segreto o delle nevrosi domestiche, c’è la casa del Grande Fratello, c’è la casa come opera d’arte…
C’è un capitolo del libro dedicato alla Trasparenza, ‘uno dei sogni ossessivi e più contro-natura di tutta la modernità’, che pare un capitolo tratto da Le città invisibili di Italo Calvino. Da quando il ferro, l’acciaio e il cemento hanno preso il posto dei mattoni, le finestre sono diventate sempre più grandi, hanno divorato i muri. All’inizio erano state pensate per gli uffici, prima a Chicago, poi a New York e in tutto il mondo, poi l’idea che la nuova metropoli dovesse essere tutta trasparente è diventato il dogma dell’architettura moderna. Bruno Taut, un architetto di Berlino degli anni venti, scrive pagine visionarie sulla Glasarchitektur, sognando città come vette alpine, luoghi trasparenti, egualitari, popolari: il Paradiso contro l’Inferno della città-fabbrica sotterranea del film Metropolis di Fritz Lang.
Ma al di là delle singole sperimentazioni, è Le Corbusier a costruire un modello rivoluzionario e popolare, con le sue finestre a nastro: la casa è una passeggiata architettonica, dall’interno vedi il paesaggio inquadrato dalle finestre, che a sua volta entra nell’appartamento; fuori, vedi la vita che si sviluppa dentro la casa, che diventa quindi parte del paesaggio.
Nessuna concessione alla tradizione poi per il maestro dell’assoluto Mies van der Rohe nella casa che costruisce per la sua committente-amante Edith Farnsworth, nella campagna vicino a Chicago alla fine degli anni quaranta. La casa è una scatola di acciaio bianco e cristallo, sollevata da terra e da tutto, ‘si oppone alla vita per raggiungere la purezza ideale’. Ogni funzione interna è ridotta all’essenziale e rinchiusa in uno sgabuzzino di legno bianco pregiato; tutto è trasparente, in un luogo che sembra sospeso nel vuoto. Invivibile.
‘In questa casa di vacanza per una donna sola, nata da una seduzione reciproca e terminata nelle aule di un tribunale a seguito di uno scontro cliente-architetto che passerà agli annali della disciplina, uno dei protagonisti sono le tende’, scrive Molinari. Mies considerava infatti un insulto la pretesa della signorina Farnsworth di mettere alle finestre dei bei tendoni bianchi dietro cui proteggere un po’ la sua privacy. La casa, detestata dalla sua proprietaria e venduta a Lord Palumbo, collezionista-di-case-famose, che non l’ha mai abitata, è diventata una delle icone feticcio del Novecento ed è stata copiata in tutte le salse e in tutte le latitudini con grande gioia delle riviste patinate e gran disperazione dei suoi meschini abitanti.