L’arte che abita. Palazzo Bentivoglio tra luce, materia e silenzio

In Arte

In occasione della 21ª Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI, Palazzo Bentivoglio di Bologna ha aperto le sue porte per l’opening di Flatland, installazione permanente di Alek O. (Buenos Aires, 1981) che si colloca accanto alle opere di Cuoghi Corsello, Chiara Camoni, Francesco Carone, Riccardo Benassi,Marc Camille Chaimowicz, Wolfgang Tillmans e Jacopo Benassi. Un intreccio tra architettura, storia e linguaggi contemporanei che caratterizza un luogo straordinario per bellezza e impegno.

A Bologna ci sono luoghi che non si vedono, ma si percepiscono. Case che sembrano appartenere a un’altra frequenza del tempo, spazi che non si impongono ma si rivelano lentamente, come un profumo o un’eco lontana. Dietro un portone discreto, in via del Borgo di San Pietro, si nasconde uno di questi luoghi: Palazzo Bentivoglio. È una casa e un’idea, una presenza gentile che appartiene alla città ma non cerca mai di dominarla. Vive di apparizioni, di respiri che si intrecciano con quelli di chi la attraversa.
Il 4 ottobre, in occasione della Giornata del Contemporaneo, quel respiro si è fatto più intenso, quasi udibile. Per un fine settimana le porte del palazzo si sono aperte, lasciando filtrare luce, silenzio e materia. Non un evento mondano, ma un gesto intimo, quasi rituale: l’apertura di una soglia. Un momento sospeso, in cui il privato si fa dono e l’arte smette di essere “esposta” per diventare esperienza condivisa, attraversamento, possibilità di incontro.


Al centro di questa edizione, l’inaugurazione di Flatland, installazione permanente di Alek O. (Buenos Aires, 1981), artista che da anni esplora la memoria racchiusa negli oggetti quotidiani. Il pavimento della stanza — una delle acquisizioni più recenti del palazzo, finora mai aperta al pubblico — è completamente rivestito da un mosaico di zerbini dismessi: tessiture logore, macchiate dal tempo, ricomposte in un nuovo disegno. Un grande tappeto narrativo che racconta passaggi, soglie, gesti domestici dimenticati. “Flatland invita a spostare lo sguardo, da un piano all’altro, dal dentro al fuori. È una topografia emotiva che rispecchia la natura stessa del palazzo: un luogo che vive nella soglia.”
Adagiati sul pavimento, i corpi luminosi di Ehi, Siri, Lumos (2023) sembrano piccole costellazioni sospese tra realtà e immaginazione, mentre nelle teche di vetro si nascondono forme di zucchero fragili come ricordi, quasi reliquie di un tempo affettivo. A dialogare con lei, opere di Wolfgang Tillmans, Marc Camille Chaimowicz e Jacopo Benassi, in un intreccio di intimità e apertura, di quotidiano e mistero. La visita comincia nel cortile, dove il neon di Cuoghi Corsello, La zampa di Pea Brain (2004), accoglie il visitatore con la sua ironia lieve e domestica. Da lì si scende nei sotterranei cinquecenteschi, riconvertiti nel 2019 dallo Studio Iascone & Partners: un labirinto di volte e di echi dove convivono Ipogea di Chiara Camoni e Memorie del sottosuolo di Francesco Carone.


Le opere intrecciano materia e racconto, evocando la biblioteca che si trova al piano nobile, come se l’intero edificio respirasse in continuità, dal sottosuolo fino alla luce del cortile. Proprio lì, nel cortile, Riccardo Benassi accende un dittico di proiezioni: Così per dire (tornare partire) (2023). Due parole che si rincorrono, creando un ritmo ipnotico e poetico, come il battito lento del palazzo stesso. Qui tutto si tiene insieme: l’antico dialoga con il contemporaneo, la pietra riflette la luce, il dentro si apre al fuori — come se il palazzo respirasse davvero. Da dieci anni, la collezione di Palazzo Bentivoglio cresce in silenzio, intrecciando arte antica, design e linguaggi contemporanei in un equilibrio sottile, quasi musicale. Ogni mese, un’opera lascia le stanze del palazzo per incontrare la città, grazie al Garage Bentivoglio, curato da Davide Trabucco. La biblioteca accoglie regolarmente presentazioni di libri, conversazioni, piccoli incontri che nascono più per affinità che per programma. E ogni anno le collaborazioni con le realtà cittadine si moltiplicano: la Cineteca di Bologna, il festival Gender Bender, il MAST, che quest’anno ospita una sezione della Biennale di Foto/Industria. Sono connessioni tangibili che legano il palazzo al tessuto urbano e culturale di Bologna. Non un museo, non una galleria, ma un modo di abitare la cultura: con affetto, con pudore, con una misura che sa di casa. “Qui l’arte non ha padroni, ma alleati. Il nome Palazzo Bentivoglio è una firma collettiva, un coro sommesso che fa della collaborazione il proprio principio fondativo”.


Quando le porte si richiudono e il cortile torna al silenzio, resta nell’aria la sensazione di aver assistito a qualcosa di raro: non un evento, ma un atto di cura. Nel ritmo lento di Palazzo Bentivoglio si riconosce una Bologna diversa: più attenta, più morbida, più capace di ascolto. Forse è questo il lascito più prezioso del palazzo — ricordarci
che l’arte non serve a riempire gli spazi, ma a farli respirare.
Di anno in anno, di apertura in apertura, Palazzo Bentivoglio continua a esistere come un punto fermo che si muove: ogni volta diverso, ogni volta uguale a sé stesso. Un palazzo che ricorda come l’abitare e il creare, in fondo, siano la stessa forma di cura.

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