In scena al Regio di Torino, l’opera del compositore francese vissuto nell’800 ebbe all’epoca una grande fortuna anche se considerata poco fedele al dramma shakespeariano. Un’autentica sfida per il cast di canto, soprattutto per Sara Blanch la cui Ofelia fu già nel repertorio della Callas.
Il teatro Regio di Torino ha il merito di ridare vita a una delle opere più belle – perché più amate – del repertorio francese della seconda metà dell’Ottocento : l’Hamlet di Ambroise Thomas. Questo lavoro oggi è noto ai più per due motivi. L’Amleto interpretato dal celebre baritono toscano Titta Ruffo. E la scena della pazzia di Ofelia cantata da Maria Callas e resa immortale da una serie di incisioni che hanno un “colore” allucinato e splendente. Per me, come per altri, Thomas rappresenta un valore musicale particolare, perché è un artista di cui ci hanno parlato tanto gli anziani, non avendo avuto noi la possibilità di ascoltarlo “dal vivo”. La sua Mignon (opera che risale al 1866) ci fa sognare perché ha espresso uno dei personaggi chiave del Wilhelm Meister di Goethe attraverso la voce di mezzi soprani oggi scomparsi (Giulietta Simionato in primis).

Solo nel nord Europa (Liegi, Bratislava) Thomas gode di una riscoperta continua. Si sono aggiunte negli ultimi anni Parigi (con l’Hamlet all’Opera Bastille) e finalmente Torino, mettendoci nelle condizioni di capire cosa abbia rappresentato un compositore che è stato determinante nello sviluppo della rilettura, appunto, di Goethe attraverso la lente francese ( Mignon sta tra il Faust di Gounod e il Werther di Massenet, che peraltro fu allievo di Thomas).
Tutte le volte che ci avviciniamo al canto francese, in particolare del secondo Impero, abbiamo l’impressione che sia compromesso il nostro quadro di ascolto e che faccia fatica ad assestarsi, dentro di noi, il valore e soprattutto il senso scenico di una tragédie lyrique.

Basterebbe confrontare l’Hamlet di Thomas con l’Amleto del compositore Franco Faccio di tre anni precedente e riproposto di recente al Festspielhaus di Bregenz in cui il libretto di Arrigo Boito ci mostra come potesse essere diversa la lettura di Shakespeare da parte dell’uomo che ha generato i due capolavori della vecchiaia di Verdi, Otello e Falstaff.
Non ci spaventa allora, anzi ci attrae, il tuffo nell’Hamlet di Thomas in predicato di “infedeltà” shakespeariana, perché siamo convinti che questa tragedia sia talmente profonda che tutto, ripeto tutto, possa partire da essa, sul piano della drammaturgia come delle invenzioni scenografiche. Tra le tante versioni che possono comprovare questa tesi quella cinematografica (1964) del regista russo Kozincev su testo tradotto da Boris Pasternak.

La messa in scena torinese si avvale di almeno due punti di forza. Il ruolo del protagonista affidato al tenore americano John Osborn – che ricordiamo a Roma nel Benvenuto Cellini di Berlioz – con uno spostamento di registro che era nelle intenzioni originarie di Thomas. E la direzione dell’orchestra affidata a un musicista dal curriculum molto particolare (anche clavicembalista oltre che compositore a sua volta) come Jérémie Rhorer.
Foto: @ Daniele Ratti-Mattia Gaido