La vendetta di Dioniso: un approccio filosofico alla musica contemporanea

In Musica

Da Schönberg ai Nirvana, passando per i Pink Floyd e Frank Zappa. Il saggista Marco Maurizi riparte da Adorno, autore del celebre “Filosofia della musica moderna”, per aggiornare il pensiero musicale contemporaneo

Per qualcosa, il tempo non passa invano. Quasi s’inseguono, oggi più di ieri, i libri che raccontano una storia della musica in cui Schönberg compare non lontano da Frank Zappa, Webern da Steve Reich, Berg dai Pink Floyd, Hindemith dai King Crimson; e Kurt Weill può condividere le stesse pagine con John Zorn, Boulez con gli Area, Stockhausen coi Nirvana. Non per stabilire parentele, ma per raccontare una storia che davvero frughi in ogni angolo, perché le stanze della musica si sono moltiplicate oltre ogni limite immaginabile e cercare esiti “alti” forti o colti, come li vogliamo chiamare, aprendo una sola porta o le stesse porte di ieri, si rischia di trovare solo valigie vuote.

Non ci sono più indirizzi sicuri, non esistono più centri dominanti da cui s’irradia l’autorità o la qualità tout-court, e la musica d’arte dobbiamo andare a cercarla con applicazione; o può lei venirci incontro in luoghi impensati che non stanno più nei dintorni dei conservatori. Il che rende le cose molto più complicate, non più semplici, e alle antenne dell’istinto bisogna aggiungere conoscenza e strumenti critici nuovi.

Poco tempo fa ci siamo deliziati con il 12 di Carlo Boccadoro (SEM, 222 pagine, 16 euro), libro giocoso ma non troppo in cui un compositore del nostro tempo associa dodici storie personali a dodici dischi della sua vita, in un ventaglio che si apre da Yoko Ono a Berio, da Stockhausen a Prince. Oggi prendiamo un bel respiro profondo perché arriva un volume ponderoso di Marco Maurizi (La vendetta di Dioniso, Jaca Book 300 pagine, 18 euro) ch’è una vera esplosione di sapere sulla “Musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana”. Maurizi è per formazione un filosofo e per anagrafe un quarantaquattrenne. Combinate un mélange dinamico fra i due stati del suo essere e avrete il corpus de La vendetta di Dioniso, suo ottavo volume, che affonda il pensiero nella musica postmoderna con sguardo attento allo scorrere dei linguaggi, nel flusso del secolo un tempo detto breve (chissà perché) dal Pierrot Lunaire di Arnold Schonberg (1912) a In Utero dei Nirvana (1993), dall’emancipazione della dissonanza santificata dalla Nuova Scuola di Vienna all’”invenzione melodica su progressioni armoniche non convenzionali” di Kurt Cobain.

La vendetta di Dioniso è una lettura d’impegno ma non carica di minacce, divisa in tre parti che prendono avvio corposo dalla Filosofia della musica moderna (1949) di Theodor Adorno, autore che Maurizi ha indagato molto e molto difende dalle critiche seguite nel tempo. Adorno è colui che nel sostenere i principi di variazione continua di Schönberg come discriminante fra musica alta e musica bassa, stracciò le carte neoclassiche di Stravinsky (ma anche quelle “materiche” del Sacre) con l’accusa di invito al plagio e all’ascolto regressivo. Adorno lanciò un dualismo Schönberg-sì Stravinsky-no che la musica del Novecento non ha voluto far suo: tra le lezioni dei due, molti, moltissimi hanno sistematicamente scelto quella di Igor.

Ma non è questo il punto centrale del libro. Maurizi vede bene la parzialità della visione di Adorno, ma non considera che sia stata elaborata una filosofia della musica migliore, e da quella prende spunto e attrezzatura critica. Ancora attuale è l’idea del “circolo fatale” in cui nella musica alta come nella bassa, “ciò che è più conosciuto (o conoscibile) ha maggiore successo, e per questo viene costantemente eseguito e dunque sempre meglio conosciuto”. Circolo vizioso in cui, in fondo, anche il festival di Salisburgo, i teatri e le sale da concerto del mondo eccellono.

Che l’industria dello spettacolo abbia ogni interesse a semplificare la materia del suo lavoro tenendo fermo l’ascolto del pubblico globale a uno stadio infantile, è ancora confortato dall’esperienza. Ma lo snodo decisivo del densissimo libro di Maurizi è nel mettere in luce quanto l’errato giudizio di Adorno sulla musica cosiddetta “leggera”, che comunque Theodor non demonizzò senza discernimento, è nel fatto che l’oggetto di quell’anatema è profondamente cambiato rispetto a quello messo a suo tempo sotto osservazione. Nel tempo la forma-canzone, su cui la musica cosiddetta leggera ha sempre navigato, è stata sottoposta a metamorfosi profonde. E qui La vendetta di Dioniso ha il suo vero inizio.

Interstellar Overdrive di Pink Floyd ha sì una esposizione del tema all’inizio e alla fine, ma “dentro è improvvisazione totale, superamento della forma canzone”. Frank Zappa, vero modello di aggiramento di ogni confine per Maurizi, è colui che “fa saltare l’opposizione fra musica seria e leggera, partendo dall’interno di quest’ultima e operandone una negazione immanente”. Come? Inglobando anche Stravinsky, Schönberg, Varèse, Cage, Stockhausen, zizgagando fra disco e Sprechstimme, sabotando “le forme fisse che veicolano il piacere degli ascoltatori”. Dunque evitando ogni rischio di alimentare regressioni infantili dell’ascolto.E così via.

Il libro allinea una quantità impressionante di esempi musicali che, nel segno di “il rock è Elvis quanto Brian Eno”, serve analisi armoniche di Misery e From Me to You dei Beatles, veri “sismografi del cambiamento sociale”, ricordando la loro predilezione per la Sesta bemolle; del “pitagorismo pratico” dei primi Pink Floyd in Astronomy Domine e Lucifer Sam; del cromatismo e dello sperimentalismo timbrico dei King Crimson, ricordando come Fripp avesse scoperto i Quartetti per archi di Bartok e in Providence (dall’ultimo album Red, 1974) accolto il linguaggio della dissonanza emancipata dalla scuola di Schönberg. Si citano massicciamente Horkheimer, Lyotard, Deleuze, ma non si trascurano le “funzioni elementari” dei Ramones, le fissità robotiche dei Kraftwerk, lo “Sprechstimme” punk di Johnny Rotten, le settime maggiori, le quarte aumentate e le seste napoletane amate dai Sonic Youth, la “sporcizia acustica come valore” dei Velvet Underground e di Lou Reed.

Su tutti comunque, s’innalzano due Zeta: Frank Zappa e John Zorn; i due più dotati contestatori del fatto che “l’incontro con il grande pubblico debba passare attraverso lo snaturamento del linguaggio colto”. Che infatti entrambi utilizzarono con sapienza e ironia. Il primo, Frank, autore di quella che Maurizi considera la prima opera postmoderna: Lumpy Gravy, 1968.

E Dioniso? Il libro ne prende il nome e le parti perché, come diceva Nietzsche, è il dio della pulsione sempre tesa a mettere in discussione, a calpestare ciò che è stato formalizzato. (Da Apollo?). Anche nella musica – classica, colta, alta, bassa, forte o leggera -, due divinità greche starebbero al governo della sua eterna dialettica. Ma a Dioniso spetterebbe di garantirci da ogni acquiescenza creativa e regresso d’ascolto.

 

 

Da La vendetta di Dioniso/ La musica contemporanea da Schonberg ai Nirvana di Marco Maurizi (Jaca Book)

Introduzione
FILOSOFIA DELLA MUSICA POSTMODERNA
Chi volesse con uno sguardo contemplare dall’alto la musica che viene scritta, suonata e diffusa oggi si troverebbe di fronte uno scenario frammentato e contraddittorio, in cui il timbro del violino convive con i suoni sintetizzati dal laptop, la violenza della dissonanza con il romanticismo della canzonetta, la grazia della danza con la brutalità dei riti di socializzazione, l’ascolto solitario con i grandi raduni di massa, l’esperienza viva della musica con la sua smaterializzazione telematica. Tutti gli impasti sonori e le possibilità espressive sembrano essere state tentate e, comunque, è difficile immaginare un’idea musicale che possa oggi essere rifiutata perché troppo “estrema”. Ci troviamo nel classico scenario postmoderno, con il suo ribollire manieristico di stili, in cui tutto sembra possibile eppure, lungi dall’annunciare una libertà inedita, tale possibilità infinita sembra segnalare uno stallo, lasciare sgomento il pensiero. Le categorie del vecchio mondo (alto/basso, profondo/superficiale, progressivo/reazionario) sembrano perdere presa, ma non è facile dire se e quanto la coscienza e il pensiero si trovino veramente all’altezza di tale sfida. Anche da un punto di vista sociale lo scenario è inedito: chi oggi ha sessant’anni può ascoltare musica assordante (magari la stessa che cantava “I hope I die before I get old”), mentre alcuni giovani possono essere musicalmente più conservatori dei loro nonni. In una scuola può capitare che gli unici studenti che ascoltino ancora Beethoven siano orientali, il che, peraltro, non è un cattivo argomento a favore dell’universalismo della musica “classica”. La tecnologia rende la musica onnipresente nelle nostre vite, se ne ascolta tanta, di tutti i tipi, ovunque: eppure se ne vende pochissima. Lo Stato, da parte sua, sembra diventato letteralmente sordo alle esigenze di una vita musicale degna di questo nome e allora la musica si riduce a format televisivo, la fiera dei talenti e delle vanità.
Ritengo che, al di sotto dell’apparente molteplicità degli approcci, dei suoni e delle mode, ci siano invece alcune tendenze di fondo che aiutano a orientarsi nell’esperienza musicale contemporanea. A giudizio di chi scrive, tali tendenze non appaiono al semplice sguardo retrospettivo e storico – seppure questo non possa mancare a un’adeguata comprensione dei fatti – ma necessitano piuttosto di un approccio diverso, propriamente filosofico. (…)

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