Tra il 1943 e il 1945, gli anni più feroci della guerra e dell’occupazione nazista, vive nel milanese l’esperienza dei Gruppi di difesa della donna . “Vogliamo vivere” è il saggio che ricostruisce l’azione capillare delle reti femminili antifasciste che pongono le basi del welfare del dopoguerra
“Nella Resistenza c’è stata la capacità di invenzione di un mondo nuovo. Si è forse ricordato troppo l’aspetto militare, invece un aspetto molto tipico e straordinario dell’esperienza italiana, come ha scritto lo storico e partigiano Roberto Battaglia è stata l’esistenza di una società partigiana. In quei due anni l’Italia è cambiata: le donne, i bambini, i vecchi, gli italiani tutti hanno ritrovato soggettività e protagonismo e ciò ha poi consentito di fare lo straordinario salto, scrivere la nostra Costituzione, nonostante alle spalle ci fossero 20 anni di fascismo”. Così, lucidissima, Luciana Castellina, intervistata da Radio popolare alla vigilia dell’80° anniversario della Liberazione che l’ha vista in corteo, anche lei in mezzo ai 90 mila, ieri a Milano.
E sembra di vederla, di attraversarla, nei quartieri, nella case, nelle fabbriche, a piedi e in bicicletta, negli occhi delle ragazze e nelle braccia forti delle donne, questa società partigiana, sfogliando con interesse il libro firmato da tre storiche, Roberta Cairoli, Roberta Fossati e Debora Migliucci, dedicato alla straordinaria e poco nota esperienza dei Gruppi di difesa della donna a Milano tra il 1943 e il 1945. Ancora poca conosciuta non per caso e nonostante gli sforzi degli ultimi anni resta infatti la Resistenza delle donne. Editrice Enciclopedia delle donne, “Vogliamo vivere” il titolo-manifesto di questa corposa ricerca, mente il sottotitolo indica il filo rosso che da quella stagione comincia, che motiva l’ingresso delle donne nella vita pubblica nel dopoguerra e resta prezioso proprio perché oggi è in pericolo: “Le reti femminili antifasciste all’origine dello stato sociale”.

Una storia di tante e diverse. Tante: nei due anni feroci che portano alla fine della guerra circa diecimila donne vennero organizzate nei gruppi di difesa della donna nel milanese, mentre furono 70mila in tutto il Nord Italia. Diverse: se il nucleo fondatore dei Gdd, sul finire del ’43, veniva dal Partito comunista, dall’esperienza di lavoro politico clandestino e all’estero negli anni del regime i gruppi furono, nelle parole di Nadia Spano, ‘una grande scuola di unità’ che vede la presenza di donne azioniste, democristiane, liberali, antifasciste al lavoro, base le fabbriche, per mobilitare, coinvolgere le altre e sostenere la lotta partigiana. Diverse anche per classe, origine sociale e culturale, accanto alle lavoratrici e alle casalinghe dei quartieri anche le donne borghesi della Milano antifascista. Scrive una delle prime, una delle fondatrici, Ada Gobetti su Noi Donne, organo di stampa dei Gdd: “Le donne che oggi assieme resistono, lavorano, combattono, soffrono, non potranno mai più essere tra loro estranee o nemiche. Ogni distinzione di classe, di partito, di fede non dovrà essere cancellata … e questa nuova solidarietà femminile sarà forse il fondamento e il modello di una più ampia solidarietà nazionale e umana…”. In realtà dissidi e fratture, interni e con i partiti di riferimento, fanno parte della storia dei gruppi durante e subito dopo la guerra, mentre una tappa fondamentale fu il riconoscimento dei Gdd all’interno del Comitato di liberazione nazionale nel luglio del ’44. La ricerca delle storiche e dedicata ad una di loro, Roberta Fossati, scomparsa prima che il libro vedesse la luce, è stata condotta su archivi, fondi e plurime documentazioni e restituisce con precisione e minuzia nomi, volti, circostanze, modalità organizzative – complesse ed efficienti – risultati del lavoro dei gruppi che, agendo nei momenti più duri della guerra e dell’occupazione nazista, oltre a sostenere le e i combattenti partigiani, parteciparono ai grandi scioperi delle fabbriche del Milano e di Sesto tra il ’43 e il ’44, protestarono per il pane, costituirono una rete capillare di aiuto e assistenza nei quartieri in un sforzo quotidiano, inesausto, che legava le necessità di famiglie i cui uomini erano in guerra con il lavoro politico e di opposizione al regime nazifascista.
Ed è appunto questo intreccio a fare politico il privato e a costruire mobilitazione e consapevolezza non esente da conflitti: il protagonismo delle donne ha sempre dato fastidio sia nel chiuso delle case sia sulla scena pubblica e se l’è dovuta vedere con resistenze, stereotipi e divieti. Con lucidità, ancor prima della nascita dei gruppi, ne scrivono le operaie della Borletti e a dispetto di molti uomini che le giudicavano interessate solo “al rossetto e allo stupido romanticismo”: ” … Noi donne vogliamo lottare e realizzare l’unione stretta e definitiva di tutte le donne lavoratrici per conquistare nella futura società d’Italia quella parità di diritti e quella considerazione civica che ci spettano… ci sentiamo particolarmente oppresse dal fascismo… Partecipando in massa a questa battaglia suprema, Noi Donne manifestiamo nel contempo la nostra volontà di non essere più soltanto strumento di piacere e di sfruttamento, ma libere e fiere cittadine sicure dei nostri doveri e diritti”.

I tempi più duri – il Natale del ’44 sarà ricordato come il momento più cupo e difficile di quella stagione – impongono sfide ancora più grandi: si tratta di assistere non solo i partigiani in montagna ma anche famiglie i cui uomini sono in clandestinità, in carcere, deportati o uccisi e che la guerra ha ridotto in miseria. Pina Palumbo, Elena Dreher, Lucia Corti e Gina Galeotti Bianchi (la partigiana Lia che verrà uccisa il 24 aprile del ’45 dalla mitragliatrice di un autocarro tedesco) sono le quattro componenti del Comitato centrale di assistenza che nell’agosto del ’44 viene investito dal Comitato di liberazione Alta Italia del compito, più che mai difficile, più che mai vitale, di organizzare e fornire assistenza alle famiglie bisognose, stimate in 700 al marzo del ’45: denaro, cibo, vestiti, materiale sanitario ma anche informazioni e sostegno arrivavano nelle case tramite la rete delle ‘visitatrici’, organizzate per settori e zone. E anche in questa capillare attività c’è un pensiero di futuro: l’esperienza fatta durante l’occupazione, scrivono i Gdd, ” è preziosa per noi, sarà preziosa nel domani dell’Italia libera e democratica che creerà i nuovi istituti nazionali di previdenza e assistenza sociale a cui le donne italiane intendono dare il contributo della loro volontà e capacità”.
Sarà una di loro, Elena Dreher, la prima assessora della storia dell’Italia libera, la prima a ricoprire un incarico pubblico, chiamata nella notte tra il 25 e il 26 aprile del ’45 a occuparsi di Assistenza e Beneficenza nella giunta milanese del sindaco Greppi mentre Ada Gobetti diventerà vicesindaca di Torino il giorno successivo. E’ la parte finale della ricerca a occuparsi dell’impegno e dell’impronta che alcune esponenti dei Gdd seppero dare, non senza problemi, fatiche e scontri, all’assistenza sociale negli anni del dopoguerra, intesa come diritto da tutelare tramite figure formate e professionali e non come gesto caritatevole d’ispirazione religiosa o, com’era stato durante il regime, elargizione clientelare: “Furono loro le protagoniste della stretta relazione che esiste tra la Resistenza e la nascita dell’assistenza sociale”.
Eccola incarnata in questa storia meticolosamente e meritoriamente restituita a noi la società partigiana di cui si diceva all’inizio: società di donne e ragazze, di operaie e borghesi, di casalinghe, vedove, madri di molti figli e di donne colte ed emancipate. Di donne a pieno titolo protagoniste della lotta di liberazione mentre continuavano a provvedere, con incredibile coraggio, alla trama quotidiana dei bisogni e già intuivano, lezione preziosa per il futuro, il nesso profondo tra la cura del vivere, la vulnerabilità di chi vive e la libertà. Lo avevano scritto nel volantino che all’inizio del ’45 chiamava le donne milanesi alla lotta contro l’occupazione e in vista dell’insurrezione: “Vogliamo vivere!” proclamava.