Al Teatro Franco Parenti fino al 22 giugno, Raphael Tobia Vogel, Ambra Angiolini e Ivana Monti hanno scelto di portare in scena un lavoro tagliente e potentissimo, immergendosi tra le pieghe dell’odio che regge una famiglia e dell’umanità che alimenta i nostri istinti peggiori
La provincia, dell’anima e del pensiero prima che di ogni latitudine, intossica, inesorabilmente. Avvelena e uccide lentamente, prima che ce ne si accorga, sprofondati nel buio dell’odio. Lo stesso che abita una catapecchia di legni neri e vecchie stoviglie, creata da Angelo Linzalata. L’unico regno possibile per la Reginetta di Leenane, come l’ha immaginata Martin McDonagh, con la sua ironia nerissima e affilata. Con le protagoniste dei lavori che lo hanno reso famoso – su tutti il premiatissimo Tre manifesti a Ebbing, Missouri, quella in scena al Teatro Franco Parenti fino al 22 giugno condivide lo strazio che scava oltre l’immaginabile, una rabbia senza sbocchi e – a conti fatti – un umanità non senza tenerezza. Che ha, però, la forma della violenza che germina quando si ha, o si crede di avere, tutto da perdere, da quel poco che la vita lascia ai margini, a chi è isolato dal mondo, come in cima a una collina nel verde uniforme dell’irlanda rurale. Un vuoto in cui distruggersi diventa l’unica via per tenersi compagnia.
Non può dunque esistere niente di diverso tra due donne prigioniere del proprio terrore: Maureen, quarantenne condannata a una infanzia forzata, e Mag, inaridita dall’illusione di plasmare l’altra pur di adattarla alla propria misura. Come non cerca più di fare il mondo, che si affaccia in forma di echi di altro odio, questa volta alimentato dal pregiudizio. O del disagio di un ragazzo di vent’anni spinto dalla vita immaginata delle soap opera per riempire anche il suo vuoto di orizzonte. O di suo fratello, Pato, che irrompe come una promessa di possibilità e un’ombra di umanità troppo sorprendente per essere sostenuta da entrambi, nella vita di Maureen, facendone, appunto, la reginetta. Ma soltanto per un attimo, come i tagli di luce che fendono il buio per illuminare, tuttavia, una realtà di segno ancor più oscuro del racconto che tutti si recitano a vicenda per poter sopravvivere. Ma è così, negli oggetti del quotidiano e nei gesti di cura trasformati in precise – e talvolta astutamente crudeli – armi, che si osserva perdersi il confine tra luce e buio, verità e menzogna, amore e una dipendenza senza speranze. Maureen e Mag si amano odiandosi, non possono sopravvivere una senza l’altra ma sanno ma sanno che, finchè l’altra esiste, la gabbia resterà chiusa e pericolosa. Lo spettacolo è un coinvolgente thriller della camera chiusa che scopre una verità tanto straziante da essere indicibile, ma troppo condivisa per non fare eco nelle vite di tutti. Perchè l’agente patogeno non è solo la provincia l’abbandono a cui costringe, ma anche la famiglia, (che portava Carmelo Bene a ripetere di “doverla distruggere”) dove i legami di sangue suonano come condanne al fine pena mai.
Ma anche all’interno delle case, e anche se perduti, si incontrano mondi: come avviene sulla scena, dove Ivana Monti, parte della storia della sala di Via Pierlombardo, conferisce alla madre una ruvidezza cupamente splendente, la lama di un sarcasmo senza sconti ma senza farne mai una maschera. Accanto a lei, Ambra Angiolini è una Maureen capace a sua volta di un esercizio di forza empatica strabiliante per chi non ne abbia ancora saggiato le doti d’attrice drammatica. A sostenerle, Edoardo Rivoira che dà a Rey un disorientamento solo apparentemente lieve, e Stefano Annoni, emozionante Pato dalla generosità troppo fragile per poterci credere. Li tiene insieme la guida raffinata di Raphael Tobia Vogel, che non ha più bisogno di dimostrare di essere un maestro nell’esaltare le sfumature emotive delle vite che porta sulla scena.
Se si volesse trovare a questa donna un corrispettivo altrove sarebbe senz’altro la Suzanne (“si lo sai che lei è pazza, ma per questo, sei con lei”) di Leonard Cohen resa in italiano da De Andrè, che si aggrappa all’onda del sogno di tutta la vita senza dare il tempo al mondo di svelarle la sua meschinità. E tuttavia, pur mostrandoci che il mostro si annida, in tutti, sul filo dell’abisso e dell’emersione, e ciò a cui abbiamo cercato di fuggire ci attende come un destino, se come precisa il cantautore anche Gesù Cristo “fu spezzato, ma più umano, abbandonato”, anche questo spettacolo, emozionante e disturbante come solo le cose che ci permettono davvero di riconoscerci, ci scongiurare, almeno nella nostra il naufragio, anche quando è già accaduto.