Lo strano caso del norvegese che non scrive gialli

In Letteratura

Nessun intrigo, né atmosfere sospese. Per Karl Ove Knausgård che offre una sezione anatomica dela propria vita il lato oscuro della società scandinava è quello dell’io, che poi siamo noi

Ho cominciato a leggere La morte del padre di Karl Ove Knausgård in treno. E quando l’ho finito ho pensato che quello era il solo modo in cui avrei potuto leggerlo. In mezzo a decine di altre persone, confusa fra i corpi, le facce e le conversazioni degli altri mi sono immersa in una vita che non era la mia ma di cui inevitabilmente cercavo una parte di me stessa.

E’ il gioco che si innesca quando si legge un’autobiografia, che è un po’ come guardare i post e le fotografie sui social network: l’occhio si rispecchia, vuole il confronto per tirare alla fine un sospiro di sollievo, perché noi non siamo così, siamo meglio. E se la vita degli altri è quella di un signore che a quarant’anni una mattina si è svegliato pensando di essere Proust, è meglio prendere le dovute precauzioni e cercare fra le pagine la spiegazione di sé stessi in un vagone pieno di gente che parla, litiga, si confessa al telefono.

Mentre Karl Ove Knausgård parla di sé, noi leggiamo di noi stessi. Non può essere che questa la chiave del successo dello scrittore norvegese la cui opera – oltre 3.500 pagine divise in sei volumi – ha venduto in patria più di 500 mila copie. Per dare un’idea, facendo le dovute proporzioni, è come se uno scrittore italiano del genere di Niccolò Ammanniti scrivesse la sua vita e il 10% degli italiani la comprasse.

Va bene, la Norvegia non è l’Italia e Knausgård non è nemmeno Proust, ma l’esperimento è sicuramente degno di nota. E va un plauso a Feltrinelli per averlo ripescato con un’edizione tutta nuova dopo che l’editore Ponte alle Grazie che aveva pubblicato i primi due capitoli dell’opera lo aveva mandato fuori catalogo.

Guardandosi indietro, con esplorazione enciclopedica, Knausgård racconta ciò che accade a se stesso e alle persone che gli sono vicine nell’arco della sua vita. Nel primo capitolo, La morte del padre, la storia inizia quando lui ha otto anni e termina con il funerale del padre: in mezzo, la famiglia, la scuola, i compagni, il primo amore, il tentativo di diventare scrittore. Una banale storia della quotidianità la cui voce entra lentamente nel lettore, lavorandolo ai fianchi fino a che senza accorgersene si trova immerso nell’immediatezza e nella potenza di una scrittura senza filtri.

Ma qual è senso di tutto ciò? Karl Ove Knausgård prova a spiegarlo in un’intervista del 2010

Ci viene in aiuto anche un passo del suo primo volume: «attraverso la scrittura volevo aprire il mondo… La sensazione di un futuro che non esiste, che sia soltanto un ripetersi quasi uguale, significa che qualsiasi utopia è priva di senso. La letteratura è sempre stata imparentata con l’utopico, così quando l’utopia perde di significato, lo fa anche la letteratura. Quello che tentavo di fare era combattere la finzione con la finzione».

Quindi, il tentativo di Knausgård attraverso la sezione anatomica della sua vita è quello di sfuggire alla finzione, accettando il mondo così com’è? O al contrario, è la ricerca di una via d’uscita, di una fuga per una vita migliore?

Ogni lettore troverà la sua risposta. Io aspetto con trepidazione il secondo capitolo poter dire ancora una volta: io no, non sono così.

La morte del padre di Karl Ove Knausgård (Feltrinelli, pp. 505, 20 euro)

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