La teoria del nulla di Bruno Galluccio

In Letteratura

La scienza come poesia, la poesia come scienza: la nuova raccolta di Galluccio “La misura dello zero” mostra come quantificare l’inquantificabile

Esiste un banalissimo luogo comune che vede le cosiddette scienze esatte acerrime nemiche della letteratura, della poesia. Si possono fare un milione di esempi per mettere in ridicolo questo assunto, uno dei tanti ci viene da un libro di poesia stampato recentemente da Einaudi e scritto da Bruno Galluccio (che già aveva esordito nella bianca con Verticali, 2009): La misura dello zero.

Già il titolo ci dice molto su questa raccolta; siamo di fronte a un ossimoro: come può misurarsi lo zero? Come quantificare il non quantificabile per eccellenza, il nulla? Mi sembra che Galluccio, latamente, cerchi di dare una risposta proprio a questa domanda. Al fondo della sua poesia c’è una forte istanza indagatrice, alla costante ricerca di teoremi che possano spiegare il mondo, che possano costruire un ponte fra l’io e l’altro, e soprattutto quell’altro che è il vuoto.

L’uomo di Galluccio – che è più spesso semplicemente un corpo fatto di impulsi nervosi – è immerso e solo nel nulla e non riesce a comunicare: «ci sono alture tra i discorsi che ci scambiamo / sordità sinusoidali e trappole vistose». Sembra quasi che senza una teoria che renda il mondo intellegibile l’uomo non esista, o meglio, non esiste in quanto essere in grado di relazionarsi con tutto ciò che è esterno a sé. Per poter stabilire una comunicazione, allora, l’io raziocinante di questo libro deve quasi inventarsi una scienza: «la durezza dei poligoni siano narrazioni / contenitori di scritture concentriche / o descrizioni approssimate di una forma»; questa equazione geometria (o scienza) = narrazione mi sembra il tratto più originale e distintivo della poesia di Galluccio che si nutre di temi più tradizionali (il sogno, la solitudine, il corpo, il tempo, l’infanzia, l’impossibilità della memoria l’incertezza gnoseologica, il nulla) combinandoli con i materiali più eterogenei della matematica, della fisica e della cosmologia che assumono, allo stesso tempo, valore metaforico e letterale, strutturante ed allusivo: il vuoto, così, non è più trattato in termini metafisico-esistenziali, ma assume consistenza scientifica ( al vuoto come «enigma», come «orrore delle prime / domande infantili sull’universo», del «lì, fuori di casa in agguato», si sostituisce «oggi sappiamo che il vuoto non esiste / ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche […] lo zero è una nozione fantasma»).

La necessità di teoremizzare l’esistenza, insomma, è riconducibile a un innato bisogno di narrazione dell’uomo (Galluccio parla, infatti, di «storie-universo»), lo stesso che portava l’uomo primitivo a mitizzare il tuono. «Dimostrare è possedere» ci dice nel ritratto di Pitagora, un modo per generare un collegamento col mondo, con l’altro: «e uscivo dalla selva dell’incomprensione / per avventurarmi verso le figure dei pianeti». Insomma l’io guarda alla scienza (e al cielo che ora si scruta con occhio scientifico) per cercare di dare una struttura al mondo. Questa urgenza, però, si scontra con la labilità e l’incertezza della teoria.

Alla base di questa crisi epistemologica credo ci sia sicuramente il principio di indeterminazione di Heisenberg (che Galluccio in quanto fisico non può non tenere in considerazione), ma anche la teoria di incompletezza di Gödel (cui è dedicato, insieme a Pitagora ed Evariste Galois, un ritratto nella terza sezione Matematici) con il quale «indeterminato e indicibile / fanno irruzione nel mondo».

E sintomaticamente la raccolta si apre con un testo che vuole abolire il dogma della verità assoluta della geometria euclidea («quando Lobacevskij si mosse / verso un rigore visionario / e rifondò l’assioma di rette parallele / creò per ni orocicli e orosfere / dal confine finito e irraggiungibile») per avvertirci che quello in cui ci stiamo muovendo – nel libro e nell’esistenza reale – non è uno spazio stabile e certo, ma una «materia oscura» (che è l’aggiornamento gallucciano del tema più classico del sogno) difficile da cogliere («l’occhio dice poco»: l’empirismo ha i suoi evidenti limiti) in cui l’io contemporaneo è smarrito e nostalgico di quel ambiente ordinabile e rassicurante che è il sistema euclideo messo in discussione in apertura.

Ma ora siamo «nei tempi illuminati dall’incertezza», alla ricerca del nostro «DNA ancestrale» di uomini, per il nostro «bisogno di origini»; «con riga e compasso riusciamo a costruire / architetture di mondi», ma, in realtà, perfino quando con la teoria tentiamo di mettere ordine nell’idea di universo, quando cerchiamo di riassumerlo, di tradurre «l’intraducibile blu», ne accresciamo il disordine totale. E l’uomo, piccolo ed insignificante, rimane smarrito di fronte all’immensità di questo cosmo che «non potrà sapere / di essersi riassunto per un periodo limitato / in una sua minima frazione».

Su un piano infinitamente più piccolo, quello che circonda l’io poetico, la situazione non è migliore, lo spazio sembra comprimersi, il mondo appare come deserto («nessuna presenza umana», «nessuna voce», «caffè vuoti», «unico respiro un tentativo di vento»), pieno di polvere, di rottami. Anche le persone paiono eclissarsi per far posto semplicemente a dei corpi o a delle loro parti: «il tuo corpo arriva come corpo», «un corpo che si lamenta» o ancora: «la storia è fatta di corpi».

E questo corpo è consegnato al vuoto che lo attrae a sé come la forza di gravità:

un’auto ha sbandato malamente
in una curva a tornante
ho temuto il vuoto
la sua forza attrattiva
per l’incolumità del tutto
per l’innocenza di noi della scena

l’inverso di quando temo io di salire troppo in alto
come nel sogno dell’ascensore
che non si ferma al mio piano prosegue
ai successivi nemmeno si ferma
e sfonda il tetto
e io mi sento perduto

priva di punteggiature, quasi un flusso incessante nel quale sta a lettore decidere le pause sintattiche e stabilire i legami fra i versi,  questa poesia ci riconsegna direttamente al vuoto, ci ricorda che «morire non è ricongiungerci all’infinito», e non è nemmeno raggiungere lo zero assoluto, lo «zero singolare», lo «zero che non ha misura» perché la fisica ci insegna che è una temperatura non raggiungibile: così dicono il teorema di Nernst, il già citato principio di Heisenberg e la legge fisica dell’energia di punto zero. Insomma dopo l’uomo non c’è nulla, nemmeno il nulla, che già sarebbe qualcosa.

 Rimane però un margine di azione all’uomo dato dalla «dignità dell’incognita» che con simboli, calcoli, potenze, garantisce «la chiarezza / del comunicare fra i vivi». E anche se la forza gravitazionale del vuoto è invincibile e «il centro della metafora è svanito / le ombre che aiutavano sono dissolte / si annuncia un’alba abissale», «se si ripensa alle deviazioni alle sviste / della specie in questa breve storia / c’è un battito chiaro di emozione».

“La misura dello zero” di Bruno Galluccio (Einaudi, 2015, pp. 138, 12,50 euro)

Immagine: Floating teal ‘n’ orange math equations di TORLEY

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