Alessandro Leone, autore dell’interessante docufilm “Out There”, si dedica da anni a una lettura filmica dell’infanzia. Con uno sguardo fatto di memoria personale e gusto nel plasmare la materia, nato dalla frequentazione delle aule di scultura a Brera, negli anni 90. Che presto si sono unite alla sua scoperta della Nouvelle Vague. Il film, dedicato a un ragazzo e a un amico morti giovani, assembla immagini ricavate da computer e cellulare che mostrano il fratello più giovane mentre diventava padre, gli allievi della scuola media dove insegna, e bambini e adulti della missione a Mumbai che da tempo sostiene
Alessandro Leone persegue da anni una lettura cinematografica dell’infanzia. Trae le premesse da uno sguardo che è fatto di memoria personale e di un gusto per plasmare la materia: non era nato, Leone, in una scuola di regia, bensì nelle aule di scultura a Brera, negli anni Novanta, frequentazioni alle quali affiancava la scoperta della Nouvelle Vague e di tanto altro. Alcuni suoi film, come il famoso corto La fune di vent’anni fa, sono stati premiati e sono leggibili, facilmente, come l’incoraggiamento a socializzare tra le civiltà. In altri, meno noti, il regista si è posto il problema più coraggioso di una “cattiveria” infantile.
Out There arriva da un momento di buio. E’ dedicato a un ragazzo e a un amico entrambi morti prematuramente ed esprime la solitudine dell’artista, posto a contatto con se stesso durante i mesi del primo lockdown (2020). Leone ha trascorso quel tempo in un piccolo, amato appartamento di Varese, che con i colori dei mobili e delle cose fa da contenitore al set cinematografico. In questa casa si è fatto guardare da se stesso, cioè da una camera fissa, spostata in diverse angolazioni, più o meno ravvicinate.
Il resto di ciò che vediamo è un montaggio delle immagini che ricavava da computer e cellulare, dialogando con tre ambiti di persone predilette: il fratello più giovane che diventava padre; gli allievi della scuola media dove insegna; i bambini e gli adulti della missione a Mumbai che Leone ha contribuito e contribuisce a finanziare e a rendere viva, con periodici, energici soggiorni. La tenacia di Alessandro fa di questo film, non sempre facile e talvolta un po’ costruito su se stesso, un momento fondamentale di fedeltà nell’espressione, un amore per il cinema attraverso lo sguardo dei bambini.
E’ un uomo che parla e rende parlante quello che non ha e che non tiene in mano, e lo fa utilizzando l’immagine che è registrata da qualcosa che non controlla, le videocamere esterne a lui, in India o in Italia. Il montaggio diventa toccante per come Leone mette in ordine e colleziona i momenti delegati agli scatti altrui e ne fa qualcosa di appassionatamente suo. Ci avvolge in un flusso regressivo, che dà la nostalgia di un senso del limite in cui siamo stati tutti e che in termini cinematografici ha il colore delle dissolvenze in nero, cioè dello schermo che diventa un fuori schermo.
Forse Out There è il film in cui Leone crede di più, per il numero di premi che sta raccogliendo nei festival di tutto il mondo e perché ha una capacità strana di farsi vedere, rivedere e amare. E’ una finestra senza cortile e senza mezzi, con una Grace Kelly e una Thelma Ritter moltiplicate in una quotidianità senza confini e riportate alle forme regolari dei monitor.
Out There, docufilm di Alessandro Leone