La frenetica guerra tra sfruttati nella cucina inferno di Times Square

In Cinema

“Aragoste a Manhattan”, quarto film del talentoso regista messicano Alonso Ruizpalacios, in passato premiatissimo per “Gueros”, e’ un racconto corale girato in uno smagliante bianco e nero. In cui, nonostante si segnali qualche attimo di umanita’ solidale, c’è la capacità tutta politica di parlare di privilegio e sfruttamento, prevaricazione e pura e semplice sopraffazione. Con uno stile frenetico e senza pause, a tratti esagerato, persino esasperante, ma sempre generoso

The Grill è un immenso ristorante newyorchese a due passi da Times Square, ma è soprattutto il vero protagonista di Aragoste a Manhattan del messicano Alonso Ruizpalacios, al suo quarto lungometraggio dopo il premiatissimo Güeros e il bizzarro Museo – Folle rapina a Città del Messico. Lungi dall’essere un semplice sfondo, The Grill è il palcoscenico che contiene e dà senso alle parole e ai gesti, alle urla e ai silenzi, ai sogni e agli incubi dei personaggi che di volta in volta si alternano davanti alla macchina da presa, rubandosi di continuo la scena e componendo un affresco vivido, frenetico, grottesco, a tratti semplicemente agghiacciante. E se la giovanissima Estela, al suo primo giorno di lavoro in cucina, ottenuto per pura fortuna e senza neanche sapere una parola di inglese, può forse coltivare ancora qualche illusione riguardo al futuro che l’aspetta, l’affannata Julia (Rooney Mara) sembra già aver consumato la dose di speranza necessaria a una vita intera, tra un lavoro stressante (è addetta al servizio ai tavoli), una relazione nevrotica (con il cuoco Pedro) e una scelta decisiva da compiere su due piedi, tra un cambio turno e un litigio, senza avere neanche il tempo di pensare, né di ascoltare, sia le proprie ragioni che quelle degli altri.

Del resto, come si può imparare l’arte dell’ascolto in un microcosmo dominato da un rumore continuo e assordante? Tutti urlano, a partire dal succitato e sempre più esagitato Pedro (Raúl Briones), tutti sembrano perennemente sull’orlo di un attacco di nervi, tutti sono costretti a muoversi in spazi limitati a un ritmo indiavolato. Anche i pochi che si trovano al vertice di questa gerarchia – il capocuoco, il contabile, il responsabile delle risorse umane – partecipano di questa atmosfera malsana e contribuiscono a peggiorarla a vista d’occhio. Solo il proprietario non urla, si muove piano, si concede persino il lusso di pronunciare parole di incoraggiamento ai dipendenti. Ma è una pura finzione, un paravento, uno schermo, un tentativo di indorare una pillola che si scopre ben presto inesorabilmente avvelenata. Tutti urlano, ma ognuno nella sua lingua, e anche questo contribuisce a mettere tutti contro tutti, rendendo del tutto utopistica l’idea di costruire una rete di solidarietà tra sfruttati, per cercare di porre almeno un argine alle spietate leggi del sistema capitalistico. Nella cucina di un ristorante, come ovunque.

Che una cucina possa essere un’imitazione pressoché perfetta di un girone dantesco è ormai da tempo cosa nota. Lo hanno raccontato molti libri, tra romanzi e memoir, diversi film e almeno una memorabile serie televisiva, The Bear, di cui aspettiamo con ansia la quarta stagione in arrivo a fine giugno. E allora che cosa aggiunge il film di Ruizpalacios tratto dalla pièce teatrale The Kitchen di Arnold Wesker? Niente di speciale dal punto di vista del menù: il regista è ben poco interessato al cibo e alla sua preparazione, in questo film non troverete praticamente neanche un’immagine capace di farvi venire appetito. Anzi.

Ma in questo racconto corale girato in uno smagliante bianco e nero c’è la capacità tutta politica di parlare di privilegio e di sfruttamento, di prevaricazione e pura e semplice sopraffazione, con uno stile imperfetto e coraggioso, a tratti esagerato (e persino esasperante) ma sempre generoso. Anche quando nell’ingovernabile cacofonia di lingue e culture, rabbie, smarrimenti e desideri, lascia comunque intravedere la possibilità di uno scambio umano, nello spazio sospeso di qualche gesto minimo: offrire all’altro una sigaretta o semplicemente, per qualche istante, restare in silenzio ad ascoltare il suo sogno.  

Aragoste a Manhattan di Alonso Ruizpalacios, con Raúl Briones, Rooney Mara, James Waterston, Oded Fehr, John Pyper Ferguson

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