Il “bel mostro” da Oscar di Del Toro regala l’utopia di un nuovo mondo

In Cinema

Sfacciato, romantico, cinefilo, emozionante. Si sprecano gli elogi per “La fabbrica dell’acqua” del regista messicano, che dopo aver sbancato, con il Leone d’Oro, l’ultima Mostra di Venezia, va a caccia di Oscar partendo da un base più che ragguardevole: 13 nomination. Nell’America della Guerra Fredda, una dolce e indifesa impiegata (la deliziosa Sally Hawkins) di un laboratorio militare cerca di salvare una misteriosa creatura anfibia che gli scienziati vogliono trasformare in un’arma decisiva contro i russi. In bilico tra forti sentimenti e aeree metafore, un racconto pieno di poesia e speranza

Non poteva che ambientarsi negli Stati Uniti dei primi anni Sessanta La forma dell’acqua del messicano Guillermo Del Toro, quando la guerra fredda arroventava politica e società (nel film si sente la voce del presidente John F. Kennedy parlare dei missili sovietici a Cuba), e russi e americani si sfidavano a distanza nel tentativo di trovare la via più breve per raggiungere le stelle. In un laboratorio governativo di Baltimora si cerca di dare un decisivo contributo alla causa studiando (ma torturando, perlopiù) una strana e mostruosa creatura anfibia (gli dà corpo, più che volto Doug Jones) catturata nel Rio delle Amazzoni e ritenuta depositaria di un qualche vantaggioso mistero. Fra i pochi esseri umani che frequentano quel laboratorio assolutamente top secret, spiccano il fanatico Strikland, inflessibile capo della sorveglianza (Michael Shannon), il professor Hoffstetler, uno scienziato dalla doppia identità (Michael Stuhlbarg) e lei, Elisa (Sally Hawkins), muta e incantevole, capace di vedere l’animo sensibile del mostro e conquistarlo con uova sode e sorrisi, sguardi innamorati e buona musica, da Benny Goodman a Glenn Miller.

Elisa è solo un’umile donna delle pulizie, una fanciulla solitaria – anche perché muta – dai grandi occhi malinconici, che riesce a comunicare con pochissime persone – più che altro l’energica e logorroica collega di colore Zelda (Ottavia Spencer) e il vicino di casa Giles, omosessuale, timido e discriminato (Richard Jenkins) – ma dentro di sé custodisce una forza d’animo e di sentimenti fuori dal comune, grazie alla quale saprà fare scelte davvero spericolate e compiere imprese sovrumane. Con una grazia, una leggiadria senza pari.

Guillermo Del Toro si presenta qui al suo meglio e dimostra di essere davvero un magnifico inventore di incubi, ma anche uno straordinario narratore di utopie, speranze e nuovi mondi. Quello che ci regala è infatti un apologo umanista travestito da fiaba fantastica, una storia d’amore piena di tenerezza ma anche crudelmente esplicita, quando si tratta di mostrare mani in cancrena e gatti divorati, l’autoerotismo come scelta, il sesso come sfida impossibile fra acqua e terra.

Un film sorprendente e seducente, che incanta con la forza del racconto e la capacità di creare un universo liquido e avvolgente, impregnato di passioni e di idee ma anche e soprattutto di immaginario cinematografico. Il regista messicano rende esplicitamente omaggio al Jack Arnold del Mostro della laguna nera ma poi a tanti altri mostri di celluloide, da E.T. a La bella e la bestia, pescando a piene mani nell’immenso serbatoio della “serie B” del cinema, riportandone in vita il temerario coraggio e la disturbante capacità di parlare con esattezza del mondo reale a partire dall’invenzione di mondi totalmente irreali.

Sì, perché questa fiaba romantica, struggente e visionaria, in fondo racconta anche e soprattutto la paura del diverso, le nostre nevrosi occidentali e però pure il desiderio irriducibile e magnifico di un altrove che sentiamo e non possiamo fare a meno di rincorrere, ancora e sempre, ma che ormai non sappiamo più dove andare a cercare. Un film colmo di metafore, ma che della pesantezza del discorso metaforico non ha nulla e nulla vuole sapere, e procede lieve e sorridente, danzando fra mitologia e fantasmagoria, realtà e fantasia. Proponendo in più un discorso amoroso immerso nel silenzio e forse proprio per questo straordinariamente efficace e carico di senso. Sovversivo, quasi, e forse contagioso.

Dopo una lunga carriera nel cinema di genere fantastico (costellata di autentiche gemme, dal Labirinto del fauno per cui fu candidato all’Oscar nel 2007 come sceneggiatore a Hellboy), il 53enne Guillermo Del Toro ha conquistato d’improvviso la ribalta del cinema mainstream, portando a casa con questo film il Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia, due Golden Globe (su cinque candidature) e ben 13 nomination agli Oscar. Come andrà a finire il 4 marzo ancora non lo sappiamo, ma è difficile immaginare che non gli resti nelle mani qualche statuetta. Noi ce lo auguriamo, anche perché dell’enorme talento visionario del regista non si può certo dubitare. Ed è anche giusto ricordare che La forma dell’acqua è davvero il risultato di una serie di magnifici artisti al lavoro, a partire da un gruppo di attori in stato di grazia. Davvero. Perché Sally Hawkins (già protagonista in film assai importanti come An EducationBlue Jasmine, La felicità porta fortuna, We Want Sex) è capace di rubarti il cuore, ma anche il cattivissimo Michael Shannon (Revolutionary Road, Animali notturni) riesce a non essere caricaturale, mai, e non si tratta certo di un’impresa banale, Olivia Spencer (Il diritto di contare, The Help) è straordinaria come sempre e Michael Stuhlbarg (ora sugli schermi anche in Chiamami col tuo nome) perfetto nel suo ruolo ambiguo, esattamente come Richard Jenkins (ottimo primattore in L’ospite inatteso), commovente e mai patetico. Esattamente come il film: sfacciato, romantico, cinefilo, emozionante.

La forma dell’acqua, di Guillermo Del Toro, con Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Ottavia Spencer, Doug Jones, Michael Stuhlbarg

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