La canzone formato export: italians do it better

In Musica

Il made in Italy non è solo cibo, moda e sport ma anche e soprattutto musica. Classica, jazz, pop, metal, il mondo incorona il suono nostrano. Artisti come Laura Pausini, Andrea Bocelli, Ennio Morricone, Pfm, fino ai giovanissimi Angelina Mango e Lucio Corsi hanno riempito e riempiono stadi, cinema, sale da concerto dei cinque continenti. Numeri, nomi, circostanze e qualche riflessione a proposito di un fenomeno che non teme dazi americani

Qual è il cantante italiano più popolare in Kazakistan? Eros Ramazzotti? Sbagliato, è un neomelodico napoletano che risponde al nome di Son Pascal. Qui da noi non ne ha sentito parlare nessuno, ma ad Astana… Insomma, il made in Italy al netto degli annunciati dazi trumpiani non è soltanto moda, cibo, vino e Ferrari. Anche i nostri libri e soprattutto la nostra musica macinano numeri e consensi. Alimentando serie tv americane (la seconda stagione di The White Lotus, ambientata a Taormina, è infarcita di canzoni di Raffaella Carrà) e finendo addirittura in dotti saggi accademici (il recentissimo Fuori dal coro. Cultura pop femminile e mutamento sociale nell’Italia del dopoguerra, pubblicato da Donzelli e scritto da Elizabeth Leake, italianista della Columbia University, cita fra le altre Mina, Caterina Caselli e Patty Pravo come eroine emancipate ed emancipatrici).

Parliamo dunque di musica italiana formato export: certe nostre popstar come Laura Pausini arrivano a vendere 70 milioni di dischi nel variegato mondo “latino”. Per due ragioni: l’Italia se la cava facendo leva sulla tradizione e aggiornandola, e negli ultimi decenni ha imparato le dure lezioni della globalizzazione.

Laura Pausini

La tradizione: la melodia per le canzoni (dagli ’80 in poi, tantissimo, anche il ritmo), il fondale per i romanzi. Poi, certo, le nostre melodie possono essere non banali e i nostri fondali mediterranei sono l’anticamera di congegni narrativi assai sofisticati, ma provate ad ambientare Elena Ferrante a Domodossola e il commissario Montalbano a Varese. Come ironizzava in altri tempi Mino Maccari: «Modigliani è un gentile pittore / che a Parigi fa molto onore. / Se a Livorno fosse restato / avrebbe fatto l’impiegato».

E l’innovazione, per così dire: i nostri scrittori e i nostri musicisti si sono scaltriti, hanno imparato a usare i generi (il synthpop come il noir, il metal come la chicklit, la dance come la saga familiare), a vestire le loro opere per renderle gradite a tutte le latitudini. Ma lasciamo perdere i libri e parliamo di canzoni: dell’export musicale il catalogo è questo.

In principio era il tenore
Caruso agli inizi del secolo breve, che in realtà è stato lunghissimo, Pavarotti alla fine. Entrambi anche divi pop. Caruso con le canzoni napoletane, Pavarotti con il suo diluvio di duetti da Zucchero a Bono ed Elton John. Due modelli, due fari. Niente di strano che anche oggi, se metti in piedi un trio di ragazzini con due tenorini e un baritono, lo chiami Il Volo e prendi a modello i Tre Tenori, si faccia viva la Geffen dalla California per offrirti un contratto da due milioni di dollari. 

Cosa ancor più vera se ti chiami Andrea Bocelli, ti ha lanciato l’abilissima Caterina Caselli e in America ti ha preparato il terreno una vecchia volpe come Tony Renis. Accade così che da decenni occupi militarmente la classifica americana (nel 2000 l’album Arie sacre, il più venduto di tutti i tempi nella classica, ne traina anche altri due, e Bocelli si ritrova primo secondo e terzo), ti mettono una stella nella Hollywood Walk of Fame e ti osannano al Metropolitan (ma tu intanto duetti anche con Celine Dion, Jennifer Lopez e Mary J. Blige). 

La tradizione operistica, peraltro, fa dei nostri direttori d’orchestra uno degli articoli più pregiati dell’export musicale. Così, anche a tacere di Riccardo Muti e a non ricordare i fasti di Antonio Pappano al Covent Garden, coronati dalla nomina a sir, l’elenco resta imponente (fate la prova su Wikipedia aprendo a caso qualcuna delle oltre 600 voci dedicate alle nostre “bacchette magiche”): Gianandrea Noseda a Washington, Daniele Gatti a Parigi e Dresda, Corrado Rovaris a Philadelphia, Nicola Luisotti a San Francisco e Madrid, Fabio Luisi alla Metropolitan Opera House e alla Dallas Symphony Orchestra, Speranza Scappucci a Liegi e alla Royal Opera House. Si potrebbe continuare fin quasi all’infinito.

Anima latina
Il pop italiano degli ultimi decenni, saggiamente, ha conquistato l’America, quando l’ha conquistata (Ennio Morricone, Oscar per le colonne sonore come il più giovane Nicola Piovani, è un venerato maestro anche per molto alt-rock, basti pensare ai Calexico), con l’aria di girare alla larga, di guardare altrove. Avviene così che Laura Pausini, concentrandosi sull’America Latina (memorabile un suo concerto a Lima nel 2014: quando al bis il suo accappatoio svolazza lasciando intravedere il ciuffo del pube, al boato della folla lei replica serafica: «E vabbè, se si è vista si è vista, vorrà dire che ce l’ho anch’io come tutte le altre»), arriva a vendite stellari, a un Latin Grammy e nel 2017 assieme a Bocelli (era la prima volta dopo la vittoria di Modugno nel 1958) a una nomination ai Grammy, quelli veri. E nel 2021 a un Golden Globe per Io sì (il film era La vita davanti a sé di Edoardo Ponti figlio di Sophia Loren). Staccato di poco, tra i divi latin, c’è Eros Ramazzotti con 60 milioni di dischi venduti a quelle latitudini. Seguono Tiziano Ferro che per qualche tempo prese addirittura casa in Messico (ma rischiò il linciaggio, e dovette scusarsi pubblicamente, quando si lasciò scappare che le messicane avevano i baffi), Nek e, in anni recenti, Alessandra Amoroso.

C’è chi l’America l’ha trovata in Europa: Paolo Conte per esempio, che muovendo dai primi trionfali concerti parigini degli anni ‘80 ha conquistato il mondo, e più di recente Marco Mengoni. Oppure Gianna Nannini, che già negli anni ‘80 con il produttore Conny Plank infiammò la Germania come prima di lei Milva. O ancora jazzisti come Paolo Fresu e Stefano Bollani, globetrotter che incidono anche in Francia, Germania e Giappone (Bollani, con Enrico Rava e Gianluigi Trovesi, è approdato alla mitica Ecm di Manfred Eicher, la casa discografica di Keith Jarrett) e pianisti come Ludovico Einaudi.

L’amico americano
I nostri divi pop hanno spesso produttori e sessionmen americani. Vale per Ramazzotti (turnisti di lusso come Nathan East, Vinnie Colaiuta e Mike Landau, duetti con Tina Turner, Cher e Ricky Martin, videoclip di Spike Lee), vale più o meno per tutti. Fate caso ai tre amici americani di Eros: li trovate a suonare anche per Elio e Vasco, Pausini e Ferro, Celentano e Morandi, Daniele e D’Alessio, addirittura per Drupi. A touch of global…

Anni ’70: PFM all’Ultrasonic Studios di N.Y

Un tempo si andava a Londra. Peter Sinfield, paroliere dei King Crimson e dei Roxy Music, scriveva i testi inglesi che portarono la nostra Pfm, ingaggiata dalla Manticore di Emerson Lake & Palmer, al successo planetario. E il londinese Geoff Westley, con trascorsi da pianista per i Bee Gees, tirava a lucido fra gli anni ‘80 e il nuovo millennio Baglioni e Battisti, Ron e la  e Concato. Oggi invece si sceglie il produttore dei Red Hot Chili Peppers e di Johnny Cash (Rick Rubin per Jovanotti), si debutta con testi inglesi e studio di registrazione a Berkeley (Elisa nel 1997: quindici anni dopo Quentin Tarantino userà una sua canzone per la colonna sonora di Django Unchained) o si fa lo stakhanovista dell’ospitata e del duetto, come Zucchero, che da Bono a Knopfler, da Miles Davis a Clapton, da Ray Charles ai Blues Brothers ha suonato e cantato proprio con tutti.

Nostalgia canaglia
Zucchero è stato anche il primo a cantare sulla Piazza Rossa, subito dopo la caduta del Muro. Ma il primo ad avere successo nell’allora Unione Sovietica, negli anni ‘60, fu il divo bambino Robertino al secolo Roberto Loreti, classe 1947, romano e garzone di panettiere, 50 milioni di dischi venduti a Mosca e dintorni. Lo ascoltavano in orbita, a cantare Spazzacamino e Torna a Surriento, Gagarin e Valentina Tereskova. Il suo maggiore successo fu un’improbabile Jamaica, che incuriosiva i russi per l’assonanza con “ja majka”, io sono una maglietta. Se guardate su YouTube i commenti in cirillico alle sue canzoni, gli ex giovani ed ex sovietici non lo hanno dimenticato. Poi, complice Sanremo che la tv sovietica cominciò a trasmettere nel 1983, è stata l’alluvione. I Ricchi e Poveri, che ancora in anni recenti facevano settanta date all’anno in Russia, Riccardo Fogli invitato a cantare a Sebastopoli sottratta agli ucraini, Al Bano e Romina sold out a ogni concerto e soprattutto Toto Kutunio (lo chiamavano, forse lo chiamano ancora così), l’italiano vero. Popolare a tal punto da essersi esibito con il Coro dell’Armata Rossa, a tal punto da far sbocciare i “cutugnisti”, gruppi di fedelissimi ortodossi che imparavano l’italiano dalle sue canzoni.

L’assalto alle piattaforme
Fenomeni ancora vivi, ma in qualche modo già quasi storie di ieri, con l’assalto italiano alle piattaforme di streaming nell’ultimo decennio. Perché, per una volta, per noi la globalizzazione musicale ha significato passare alla cassa per riscuotere. E se ascoltiamo tanti brani inglesi e americani, oggi in tanti ascoltano noi. I dati forniti da Spotify parlano chiaro: le royalties degli artisti italiani arrivano per il 50 per cento da ascoltatori stranieri, oltre 60 milioni di utenti soprattutto tedeschi e americani. E sono cresciute del 160 per cento. 

Le cifre ballano e variano a seconda delle fonti, ma hanno tutte un incoraggiante segno più. La Fimi parla di 26 milioni di euro di ricavi nel 2023 (+20%), la Siae di 31,6 milioni, con una crescita del 29,16 per cento. Alla Siae, con l’agenzia Italia Music Export, va il merito di avere monitorato in maniera costante il fenomeno, finanziando 796 artisti e 197 progetti. 

E così oggi, in vetta alle classifiche degli ascolti internazionali, troviamo rapper come Sferaebbasta e rivelazioni che Eurovision ha imposto all’attenzione globale, dai Maneskin ai metallari Lacuna Coil, da Mahmood ad Angelina Mango a Lucio Corsi. Si assiste al trionfo dell’indie-pop nostrano, da Gazzelle ai Pinguini Tattici Nucleari al trionfo di Calcutta con la versione spagnola di Paracetamolo

Soprattutto, si impone l’onda lunga della nostra dance, che ha colonizzato mezzo mondo dagli anni ‘80 e ‘90 (Call me di Ivana Spagna secondo in Gran Bretagna nel 1987; The rhythm of the night della brasiliana naturalizzata italiana Corona che nel 1993 spopola ovunque) fino a oggi (la band Eiffel 65 che ha venduto 15 milioni di dischi ottenendo anche una candidatura ai Grammy). Nella musica, insomma, italians do it better.

In copertina: Lucio Corsi

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