La differenza fra sapere e non sapere

In Letteratura

La Bestia è un treno merci usato dai migranti che dal Messico sognano di arrivare negli Stati Uniti. Lo racconta Óscar Martínez nel suo libro-reportage

Nel 1987 Nanni Balestrini pubblica un romanzo dal titolo Gli invisibili, dedicandolo a quella nuova generazione di proletari che appena dieci anni prima era esplosa nel Movimento del ’77. Soltanto l’anno scorso questo titolo è stato ripreso da Emanuele Farragina nel suo La maggioranza invisibile dove gli “invisibili” sono 25 milioni di persone che nutrono l’economia italiana senza essere riconosciute. Sono immigrati, pensionati poveri, disoccupati, precari e neet (Not in Education, Employment or Training). Cinque categorie sociali ora bersagliate ora coccolate dalla propaganda politica. Ma sono anche gli “inesistenti” di cui parla Alain Badiou: assenti dal senso e dalle decisioni sull’avvenire nel mondo. E in questa categoria rientrano soprattutto i migranti, persone senza documenti, senza identità, per le quali è in atto una progressiva spoliazione dello statuto giuridico di soggetto – per usare le categorie di Giorgio Agamben – esattamente come avveniva nella Germania nazista.

Queste persone sono quelle che sbarcano – o tragicamente non sbarcano – nel canale di Sicilia, oppure i migliaia di centroamericani che cercano di attraversare il Messico con la speranza di trovare non tanto una vita migliore, quanto la mera sopravvivenza, al Nord, negli States. Questo è quanto ci racconta il libro-reportage di Óscar Martínez, La Bestia (The beast).

La tipologia – o genere, che dir si voglia – è molto simile a quella di Gomorra di Saviano: un reportage raccontato in prima persona e vissuto in prima persona, dettagliato e corredato da dati, testimonianze e statistiche, ma che pure «supera la semplice scrittura documentaria per entrare nel regno della letteratura. Il libro di Martínez è un degno successore di un’opera immortale come La strada di Wigan Pier di George Orwell» (The New York Times).

Il libro è diviso in quattordici capitoli ognuno dei quali è giocato su un doppio movimento: quello in avanti dello scrittore che procede nel viaggio e quello indietro dei racconti dei personaggi incontrati nelle varie località (e ogni capitolo porta il nome di un posto che rappresenta una tappa emblematica dell’emigrazione).

I viaggi che ci vengono raccontati sono almeno due: quello dell’autore – che cerca di capire e ricostruire le ragioni e la vita di questi migranti – e quello delle persone che, letteralmente, scappano dal proprio paese d’origine: «la parola che descrive più esattamente il suo viaggio non è “emigrazione”, ma “fuga”» (pag. 3). Quello su cui il libro fin da subito vuole sottolineare è lo statuto di necessità che porta i migranti a compiere questa scelta; il centroamerica è uno dei luoghi più pericolosi al mondo, queste persone spesso non hanno scelta: le bande criminali e i narcos spesso non lasciano altra alternativa alla popolazione: o la morte o l’esilio.

Questa crudeltà e inospitalità del luogo trova il suo corrispettivo letterario nella descrizione paesaggistica, sempre caricata di un’aura negativa, talvolta espressionistica: «infernale umidità» (pag. 43), il terreno è un percorso ad ostacoli (pag. 45) e gli ostacoli sono i cadaveri – e si badi bene: non è una metafora – di chi non è sopravvissuto alla “tentata emigrazione”: «camminiamo in mezzo ai morti. Il valore della vita appare rimpicciolito, ciondolante e appeso come un’esca all’amo» (pag. 46), «è uno scenario quasi apocalittico. Arido. Selvaggio nella sua secchezza […] sembra un’area devastata dalle bombe» (pag. 57), «un cimitero di senza nome» (pag. 75). Di senza nome perché la caratteristica precipua di queste persone è l’invisibilità, sono senza documenti (Erika, ragazza costretta alla prostituzione sin dall’infanzia non ha nemmeno il certificato di nascita: di fatto non esiste), sono ombre (la parole ricorre quasi ossessivamente nel testo) «vomitate nel mondo», «sputate» (pag. 68) dove capita e senza nessuna importanza: «Immagino che per loro un migrante morto sia ordinaria amministrazione, ma una coppia di giornalisti morti sia un altro paio di maniche. Nessuno vuole cadaveri del genere – cadaveri con un nome – sotto la propria giurisdizione.» (pag. 47, corsivo mio). E per sottolineare ancora di più questo annichilimento del soggetto Martìnez ricorre copiosamente ad una terminologia animale per riferirsi ai migranti: «guaiscono come cani» (pag. 36) sono dei «randagi» (pag. 86), un «gatto ferito che attraversa un canile» (pag. 111), ma quella più usata, fino al parossismo, è la similitudine con le zecche: come questi parassiti si attaccano alla bestia che dà il titolo al libro, ovvero un treno merci sul quale i migranti saltano su e restano attaccati, appunto come zecche, a questi vagoni d’acciaio per giorni e devono stare attenti a non addormentarsi: sono in molti quelli che per stanchezza perdono la presa e cadono morendo, nella migliore delle ipotesi, o ritrovandosi mutilati a vita. Per loro il viaggio finisce qui.

Per altri il viaggio finisce risucchiati dal Rio Grande nel tentativo di attraversarlo a nuoto, molti altri – quasi tutto – vengono rapiti dai Los Zetas (la banda criminale più potente del Messico) che chiederà alle famiglie degli States un riscatto. E nessuno fa nulla: le forze dell’ordine sono corrotte e quelle che non finiscono nel libro paga dei Los Zetas finiscono con la testa mozzata o il corpo forato da proiettili. Il traffico di migranti è una delle principali fonti di reddito per la criminalità organizzata messicana: i migranti se voglio avere qualche speranza di farcela devono pagare delle guide (in gergo coyote o polleros – i pollos sono i migranti) che poi sono al soldo dei narcos e quindi fanno in modo che i migranti vengano rapiti e torturati così da poter riscuotere il riscatto.

La situazione è ancora peggio per le donne: quando queste si mettono in viaggio sanno già che verranno stuprate, molte di loro non arriveranno mai negli Usa, ma si fermeranno in Messico dove sono costrette a prostituirsi: «Erika è il ritratto perfetto delle migranti centroamericane, le cui sofferenze accendono le notti delle città di confine. Molte di queste donne non sono andate a scuola. Fuggono dal loro passato, si lasciano alle spalle famiglie con gravi problemi, abusi fisici e sessuali, e arrivano in questi bordelli molto giovani, appena ragazzine, ancora incapaci di cogliere la differenza tra come vanno le cose e come dovrebbero andare.[…] le donne migranti sono trasformate in un prodotto […] sapevano che nel corso del viaggio sarebbero state violentate; sentono sia quasi una tassa che dev’essere pagata. […] L’abuso sessuale ha perso il suo aspetto terrificante. È questo il punto di vista dal quale si può comprendere a pieno il traffico di persone. In qualche modo sanno di essere vittime ma non si sentono tali […] il corpo diventa una carta di credito, un “corpomat”».

La cosa più terrificante e conturbante con cui questo libro ci fa scontrare, molto più della corruzione, delle torture, del traffico di esseri umani, delle morti, delle mutilazioni, è la presentazione di un male normalizzato, gli abusi non vengono nemmeno denunciati perché c’è come la consapevolezza che tanto le cose non possono cambiare, molti di loro non sanno nemmeno che le cose potrebbero cambiare. Ed è su questa luce che vorrei leggere la frase finale del libro: «è questa la differenza tra sapere e non sapere»: ripetuta due volte nell’ultimo capitolo si riferisce al fatto che solo chi sa qual è il punto migliore per attraversare il Rio Grande può farcela; ma a me piace leggerla anche in un altro modo, posta lì, a chiusura del libro, voglio vederla come un monito al lettore, come se volesse dirci: la conoscenza è potere, solo chi sa può cambiare le cose. Ed è per questo che Martínez si sforza tanto di capire le motivazioni delle scelte dei migranti.

E per noi lettori italiani, che possiamo pensare al Messico come una cosa talmente remota da non badarci molto, questa lezione è altrettanto importante, soprattutto per evitare di cadere nel facile populismo, per evitare di farci abbindolare dalla demagogia spicciola che, pur di non mettere in discussione le categorie di cittadinanza e nazionalità, ci porta a diventare razzisti e disumani, capaci persino di gioire della morte di 900 persone che non ce l’hanno fatta a superare il confine. Persone con un nome e con una storia, che non sono e non devono essere invisibili.

È questa la differenza tra sapere e non sapere.

La bestia di Óscar Martínez (Fazi Editore, 2015, pp. 260, € 16,00)

Immagine: Central American migrants find quarter in southern Mexico di Peter Haden

(Visited 1 times, 1 visits today)