“L’affido” di Legrand, premiato a Venezia: la violenza domestica formato thriller

In Cinema

Un debutto in regia da non perdere e uno dei più interessanti lavori di questo inizio d’estate: reduci da una separazione assai conflittuale, Miriam (Léa Drucker) e Antoine (Denis Ménochet) si disputano in tribunale Julien (Thomas Gioria), il figlio 11enne che vuol stare con lei e ha paura di “quello”, suo padre. E ben presto inizia il delirio di possesso e violenza dell’uomo, che lo porterà a tentare di entrare, fucile in mano, nella casa dove moglie e figli si sono rifugiati per sfuggirgli. Da dramma sociale e noir hitchcockiano, un film di gran ritmo e tensione supportato da un cast davvero in forma

L’affido, esordio del 39 enne attore, sceneggiatore e regista francese Xavier Legrand, è un ottimo film non perfetto. O meglio ancora è un eccellente (soprattutto come debutto, e meritatamente ha vinto il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia 2017) doppio film le cui parti non combaciano perfettamente. Ampliando in qualche modo i temi di di Avant que de tout perdre, Oscar e Cesar 2014 al miglior cortometraggio, di cui conserva anche i due protagonisti, Léa Drucker e Denis Ménochet racconta un inferno familiare che si apre con una compassata udienza di tribunale, in puro stile dramma sociale, e si chiude con una scena di aggressione domestica mozzafiato, in puro stile thriller. Alla Hitchcock, come vorrebbe forse sentirsi dire Legrand, cultore assoluto del regista inglese e del Kubrick di Shining, script ispiratore.

Un caso di ottima capacità di gestire due stili molto diversi, applicati alla tragica progressione dei rapporti tra Miriam (Drucker) e Antoine (Ménochet), che si sono separati malamente e davanti a una giudice non troppo acuta discutono l’affidamento di Julien, il figlio 11enne deciso a restare con la madre. Josephine, la primogenita, di anni ne farà 18 a giorni, dunque è fuori da questa parte della contesa. La scena iniziale, realistica, quasi documentaria, è perfetta: i due si parlano solo per interposte avvocatesse, non si guardano negli occhi ed esibiscono istanze, certificati medici e documenti terribili, compresa una dichiarazione del ragazzo che si mostra terrorizzato da “quello”, dalla sua violenza verso lui e la madre. Un mondo di accuse reciproche e di incolmabile rancore di cui sembra più responsabile il padre, aggressivo e complessato, deciso a partecipare alla vita del ragazzo ad ogni costo. Certo, l’ex moglie gli nega senza pietà indirizzo e numero di cellulare, per difendere anche solo dalla sua presenza Julien e sé stessa. Ma il non molto del “prima”, raccontato nel film, sembra già giustificare abbastanza questo atteggiamento. E non parliamo di quel che succederà dopo.

A sorpresa la giudice decreta però l’affido congiunto, e questo scatena il dramma quotidiano, perché ad ogni rifiuto di tenerezza, affetto, o anche solo presenza da parte degli altri (genitori suoi compresi), Antoine si trasforma sempre più in malvagio villain, quasi un orco da fiabe (il fisico in questo lo aiuta, ma Ménochet è già di suo bravissimo), uno psicopatico pericoloso, un leone ferito che concluderà tragicamente l’inseguimento verso il possesso, anche fisico, della sua famiglia, dando l’assalto, armato di fucile da caccia a pallettoni, all’appartamento in cui Miriam, Josephine (cui dà volto Mathilde Auneveux) e Julien si sono quasi nascosti per sfuggirgli. Finirà ammanettato dalla polizia chiamata dalla vicina, che certo non a caso ha un cognome magrebino, come a dire che l’emigrazione può essere anche fonte di preziosa solidarietà.

Se del film, partendo dallo script, i protagonisti sono padre e madre, Julien è però in qualche modo il motore immobile, fonte di ansia e dolore per lei, rabbia e rancore per lui, perché ogni week end in cui è costretto a stare col padre si trasforma in una sorda, qualche volta anche clamorosa, guerra psicologica. Legrand mostra grande empatia per il ragazzo (l’esordiente Thomas Gioria, perfetto), che vive la fine della fanciullezza come un’escalation drammatica di sopravvivenza, degna di Cape Fear, e si potrebbe quasi dire che gira il film alla sua altezza, scoprendo il vuoto di sensibilità, intelligenza, amore che c’è intorno a lui e gli impedisce a tratti, letteralmente, di respirare. Scoprendo il terribile sommerso che è la violenza contro i più vulnerabili: perché Julien, che spesso non dice nulla, parla attraverso gli occhi, e regge ogni dialogo con l’intensità del suo respiro.

L’affido è certamente un film sui cattivi padri incapaci di misurarsi coi propri demoni interni che finiscono per perseguitare e minacciare, e forse arriverebbero anche a uccidere: per fortuna questa storia finisce prima che lui possa tentare di farlo. Ménochet è bravissimo a esprimere il fondo di violenza e manipolazione del personaggio, e riesce anche ad evitare, nella prima parte, che il pubblico perda contatto col personaggio, lo respinga, si rifiuti di comprenderlo. E Léa Drucker, malinconica ma dura, forte e fragile insieme, è una Miriam̀ che non scivola mai nel patetico,̀ una donna che è passata attraverso una tempesta restando in piedi, e ora vuole andare avanti.

Ma se la progressione in direzione del thriller, soprattutto nel finale, dà molta forza e tensione al film, questo rende il messaggio sì convincente ma un po’ ambiguo, perché sposta il tema verso il caso eccezionale. Il violento quotidiano diventa un mostro unico, fuori dalla norma, e invece la violenza domestica, opera di ex mariti o fidanzati respinti, che è alla base della gran parte dei casi di stalkeraggio, aggressione e femminicidio (120 casi solo nel 2107, in Italia, in Francia un paio di decine in più), è una violenza continua “abituale”, se si può usare un vocabolo simile per un fenomeno così orribile, e lo sfociare in più di un caso verso il peggio, l’omicidio, a volte anche plurimo (compagna e figli) ha dimensioni numeriche che non sono quelle di un caso limite. La forza minacciosa di Menochet, anche quando piange e si dice cambiato, pentito, resta un dato credibile e aumenta la tensione drammatica del film. Ha detto Legrand: “Seguiamo Antoine dal punto di vista dei vari ostacoli che si frappongono al suo obiettivo e lo spettatore vive in tempo reale il dubbio del giudice, la pressione cui è soggetto il bambino, il terrore della moglie braccata. Volevo dare una lettura politica e universale del tema mentre immergevo lo spettatore in una trama da film di genere, quella del mostro che dà la caccia alla sua preda”. Ma così facendo tende a prevalere, almeno a livello emotivo, l’”effetto cinema”, e quasi inevitabilmente Antoine diventa un “altro da noi”. Nella realtà, però, non è fino in fondo, né sempre, così.

L’affido, di Xavier Legrand, con Denis Ménochet, Léa Drucker, Thomas Gioria, Mathilde Auneveux, Mathieu Saikaly, Florence Janas, Saadia Bentaïeb, Sophie Pincemaille, Emilie Incerti-Formentini, Coralie Russier

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