La rivoluzione all’opera secondo Mario Martone

In Musica

Il regista napoletano alla sua prima inaugurazione di stagione insieme alla scenografa Margherita Palli per Andrea Chénier, l’opera di Umberto Giordano che il 7 dicembre sarà diretta alla Scala da Riccardo Chailly.

Non fate la rivoluzione senza di loro, Mario Martone e Margherita Palli, soprattutto dopo il loro successo nella Cena delle beffe due stagioni fa. Il regista e la scenografa sono di nuovo insieme per lavorare su Umberto Giordano: stavolta tocca ad Andrea Chénier, capolavoro del compositore pugliese che sarà diretto da Riccardo Chailly come inaugurazione della nuova stagione d’opera. Ma Martone si era già immerso recentemente negli anni del terrore giacobino, in prosa, con La morte di Danton di Georg Büchner: Robespierre, Saint-Just, ovviamente Danton in un dramma che sembra uscito dalla penna di Shakespeare. E a quanto pare anche la versione in melodramma verista di Giordano e Illica mostrerà punti di vista storici altrettanto interessanti.

 

Ciò che rende speciale quest’opera è la sua scansione temporale: quattro quadri per quattro tempi diversi, lontani anche anni tra loro. È sorprendente ritrovare questa distanza strutturale su un periodo incandescente come la rivoluzione. Davvero è l’opposto di Morte di Danton, che invece tratta di un segmento stretto di quel periodo e lo mette in scena così com’è. 

Due prospettive storiche che sembrano incompatibili.
Esistono persino corsi universitari in cui si studia la storia delle storie della rivoluzione francese. Non mi sorprende che quel periodo si presti a tante drammaturgie diverse, vista l’abbondanza di interpretazioni che esistono. Anche se forse questi punti di vista dicono più sul tempo in cui vengono formulati.

In questo caso ci sono sessant’anni a separare Büchner e Giordano.
Büchner lavora su Morte di Danton subito dopo la rivoluzione, oltretutto venendo fuori da una cospirazione fallita. Mentre nel caso di Chénier siamo alla fine dell’ottocento, in quella “Italietta” che tanto deludeva Verdi.

Non conta il clima post risorgimentale di quegli anni?
Sono convinto, anche dopo aver lavorato su Noi credevamo, che fosse più che altro un clima malinconico, in cui l’Italia cominciava a mostrare tutti i segni di debolezza che ancora oggi conosciamo bene. Anche nella musica mi è parso subito di sentire questa inclinazione, come uno sguardo stratificato sulla storia.

In che senso stratificato?
Ha a che fare con gli ammassi e i detriti che il tempo lascia dietro di sé: Walter Benjamin le ha chiamate macerie della storia, per interpretare l’Angelus Novus di Paul Klee. Era solo una mia sensazione, almeno finché non ho trovato una lettera di Giordano in cui racconta del suo arrivo a Milano per inseguire Illica. Si capisce: il giovane compositore da una parte e il celebre librettista dall’altra. Giordano voleva trasferirsi addirittura nel suo stesso palazzo, vicino al Cimitero Monumentale, ma non c’erano appartamenti liberi. Così il proprietario di casa lo porta in un magazzino pieno di statue del cimitero accatastate una sull’altra. Giordano a malincuore accetta la sistemazione e scrive Andrea Chénier in questo stanzone, che in qualche modo corrisponde alla mia idea iniziale di una storia che produce strati di macerie.

Come si trasferisce questa sensazione in musica?
Mi pare che la struttura dell’opera tenda alla rarefazione. Il quarto quadro per esempio è quasi etereo: non ci sono nemmeno più i corpi dei due protagonisti, ma le loro anime. E in questo assottigliamento riconosco una vera e propria visione della storia: via via che le cose si ammassano finiscono per annullarsi l’una con l’altra finché le illusioni, le spinte, i conflitti svaniscono. Siamo lontanissimi da Morte di Danton, in cui invece i conflitti sono sempre esibiti, ma in Chénier la prospettiva sulla rivoluzione è una prospettiva postuma.

E pensare che si è spesso insistito sulla superficialità dello sfondo storico dell’opera.
È chiaro che sul palcoscenico si parla soprattutto dell’amore tra Chénier e Maddalena, non sfilano i grandi protagonisti della storia. Eppure in un personaggio come Gérard altroché se si manifesta la storia, attraverso il segno dell’ambiguità che esprime, come in quella confessione a se stesso in cui stanno insieme il potere e la voglia di lottare contro il potere. Del resto se ogni processo rivoluzionario è una lotta contro il potere, quale processo rivoluzionario non diventa a suo volta un potere ignobile?.

Così la storia arriva al pubblico attraverso i personaggi?
Sono come prismi illuminati dallo sfondo che li circonda.

Viste queste considerazioni, sembrerebbe impensabile uno spostamento temporale come quello che lei ha attuato nella Cena delle beffe.
Lì come in questo caso l’ambientazione mi è stata suggerita dalla musica, che per La cena delle beffe non mi sembrava dialogasse con il periodo di Lorenzo il Magnifico. Per Andrea Chénier non si poteva ignorare il contesto storico, non fosse altro per la carmagnola che si sente nel terzo quadro: una tipica danza rivoluzionaria. Davvero non so come un regista possa mettere in scena l’opera al di fuori della rivoluzione.

Quindi anche l’allestimento è stato impostato in tutt’altro modo rispetto alle Beffe?
C’è sempre un’imponente scenografia di Margherita Palli, ma è molto diversa dall’altra volta. Di comune resta il mio interesse per l’essenzialità dello spazio scenico. Il tempo è senz’altro quello della rivoluzione, eppure vorrei evitare ogni forma di naturalismo.

Forse per cercare un’universalità?
O una chiave che renda l’opera leggibile anche oggi.

Cambia il suo lavoro a seconda che l’opera sia spostata nel tempo o sia fedele al libretto?
Se l’intuizione funziona non si fa alcuna violenza sul libretto, come mi sembra sia stato nel caso della Cena delle beffe o dell’Oberto di Verdi. È quando l’intuizione non funziona che si è costretti a forzare le parole, a far dire ai personaggi cose che non si vedono sulla scena, a meno che non ci sia la volontà di un’azione disturbante.

Dopo Mascagni, Leoncavallo e Giordano che idea si è fatto di quel periodo musicale?
Mi sembrano tutti compositori con un gusto completamente dentro il loro tempo, nel bene e nel male. L’unico che in quegli stessi anni riesce a tirarsi fuori è Verdi, con Falstaff, che ho già fatto a Parigi e che rimetterò in scena insieme a Margherita Palli a Berlino con la direzione di Daniel Barenboim. Un’opera molto antica e molto nuova al tempo stesso: un salto mortale con cui Verdi si riavvicina a Mozart e anticipa Stravinskij, dicendo addio al secolo e all’illusione di un’Italia come l’aveva immaginata.

 

Immagine di copertina © Marco Brescia & Rudy Amisano

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