L’avventura di Fercioni nel mare della scena

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Lo scenografo della “Gazza Ladra”, l’opera che debutta il 12 aprile alla Scala con la regia di Gabriele Salvatores e la direzione di Riccardo Chailly, ci parla della sue lunghe peregrinazioni nei teatri del mondo fino allo stabile approdo sui palchi milanesi

Col fiore all’occhiello e un’eleganza da dandy ottocentesco, Gian Maurizio Fercioni mi aspetta al Marchesino, che lui forse ricorda più come Biffi Scala. Del resto, se La gazza ladra di mercoledì prossimo, diretta da Riccardo Chailly, sarà il debutto alla Scala per Gabriele Salvatores, non sarà lo stesso per il suo scenografo, che già dalla fine degli anni sessanta varcava l’ingresso artisti di via Filodrammatici. Insomma siamo nel suo quartiere: poco distante c’è Brera, con l’Accademia dove ha studiato. E non molto più in là, in via Mercato 16, il suo tattoo studio, Queequeg, nome del terrificante cannibale di Moby Dick, ovviamente tatuatissimo, che alla fine della nostra conversazione non mi sembrerà meno elegante del mio interlocutore.

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Cosa mi dice di Queequeg?
Figlio di un’antica famiglia maori, vedeva i velieri come divinità.

Per lei è stato lo stesso?
Ho navigato tanto: facevo trasferimenti di barche a vela a non finire. Se avevo un ingaggio ad Amburgo, andavo da un mio amico broker di Viareggio e mi informavo sugli imbarchi. Una volta presentati i bozzetti, mi imbarcavo.

Il mare, il teatro, i tatuaggi. Cos’è arrivato prima?
È arrivato tutto insieme, in modo molto naturale. Il teatro si masticava in casa, mentre tatuaggi ne vedevo di continuo nei porti, sul corpo di chiunque incrociassi: gente di ogni ceto sociale.

Da una parte un tratto permanente, dall’altra il carattere temporaneo di una scenografia.
Ma si parte sempre dal disegno. E da una voglia di viaggio e di avventura. Mi sono ritrovato ad andare in giro per il mondo in cerca di tattoo studios. E con grandi sforzi riuscivo a combinare queste ricerche con produzioni nei teatri di quelle città. Anche il teatro è come un sogno e quando una scenografia è ben fatta, anche se è effimera, rimane nella memoria. Accade lo stesso per la musica.

Qual è la musica che le è rimasta addosso?
Penso al fascino che su di me hanno Mozart e Rossini, come appunto La gazza ladra. Ma anche Tom Waits, Willy DeVille o il jazz. Non mi interessano le distinzioni tra generi, non ne faccio.

Com’era l’Accademia?
Ricordo come tutto fosse politicizzato: era il sessantotto e da architettura venivano a dirci come organizzare i gruppi di studio e a parlarci di gerarchie. Ma per noi il confronto non mancava mai: su Beckett, su Pollock. Cominciavamo di mattina e la sera finivamo al Jamaica o in altri ristorantini in Brera che non costavano niente. Era qualcosa di insito nel nostro modo di vivere, come in un Parnaso. Ci divertivamo.

Mi interessa il suo rapporto con la prosa.
Ho iniziato come assistente al Piccolo. Nel periodo in cui Strehler se ne era andato c’era il gruppo di Chéreau, Peduzzi e Schmidt. Ricordo che andava in scena Toller, una commedia di Tankred Dorst. Cercavano qualcuno in Accademia per delle sculture molto grandi. Mi proposi: sono sempre stato sfrontato. Presentai un bozzetto a Schmidt e riuscii a firmare una decina di mascheroni tratti da un’illustrazione di Grosz. Partii con loro per Lione, dove Roger Planchon aveva rifondato il Théâtre national populaire. Rimasi tre anni.

Poi arrivò la Shammah.
Io e Andrée siamo amici dall’infanzia. Mi chiamò per dirmi che volevano fondare un teatro. Ricordo una corsa in taxi con Testori e Parenti per vedere il TQ Teatro Quartiere, in piazzale Cuoco, dove voleva mandarci Paolo Grassi: un tendone gelido che poteva andare bene per il circo. Fare teatro abitua al sacrificio, ma quel luogo era umiliante. Fu il tassista a portarci al cinema Ars, in via Pier Lombardo, un multisala del ventennio fascista. E con il riverbero di un accendino scoprimmo il palcoscenico dietro a un muro al di là dello schermo.

E Salvatores?
Fondò l’Elfo l’anno dopo. Ci conoscevamo perché anche lui era passato dal Piccolo, come chiunque volesse fare teatro. Abbiamo lavorato molto, anche quando ha iniziato con il cinema: Sogno di una notte d’estate, Kamikazen. E anni dopo l’opera: Cirano di Tutino, La gatta inglese di Henze, La figlia del reggimento, che fu un grande successo.

Lo spettacolo più importante di quegli anni?
La trilogia di Testori con Parenti. Erano due giganti, ma insieme alla grande rottura con la tradizione c’era sempre garbo, classe. Avevano inventato un linguaggio che era un po’ un grammelot, come quello di Dario Fo. È questo il patrimonio culturale che mi porto dentro. Ho avuto la fortuna di buttarmi dentro ad avventure e avanguardie di ogni tipo.

Da vero marinaio.
Una volta un teatro era come una nave, tanto che le graticciate, la parte tecnica delle soffitte, prendevano molto dalla carpenteria navale. I tiri si governavano in modo simile alle vele e anche i nodi che si facevano sul ballatoio assomigliavano a quelli della marineria. Oggi è tutto diverso.

Dov’è l’eleganza oggi?
Non c’è, se non in piccole nicchie. L’eleganza è semplicità, consapevolezza della storia e un tocco di modernità. Un po’ come il negroni sbagliato. Invece viviamo in un mondo inelegante, senza coscienza. E io dove sto? Sto coi balordi, a fare tatuaggi a gente di ogni tipo. E poi sto in teatro.

Ci sono regole per una scenografia?
Non bisogna sforzarsi di fare i moderni. La modernità si ritrova in tutto, basta avere la sensibilità di leggere nelle epoche e fare delle sintesi. Poi il teatro consente di estendere. Molte volte basta essenzializzare o caricare, ma ho in mente scenografi e costumisti che non fanno altro che mettere, mettere. È insopportabile. Solo la semplicità è elegante e l’eleganza non ha riferimenti.

Si può essere eleganti in ogni epoca?
In ogni secolo, dal Cinquecento a oggi. Persino in quello schifo di ventennio fascista si poteva essere eleganti. A patto di non indossare la camicia nera, che era di una volgarità orribile. È uno di quei casi in cui l’estetica diventa etica. E poi sa di puzzolente, come quando ti vendono biancheria nera dicendoti che è poco sporchevole.

Testori era elegante?
Sì, perché era sobrio. E anche Parenti: semplicissimo, col suo blazer. Io sono più eccentrico, le provocazioni mi divertono: oltre che semplice, l’eleganza è fatta di tanti dettagli, come un linguaggio segreto.

Anche il teatro è un linguaggio segreto?
Ci sono piccoli avvertimenti ed escamotage che il pubblico non vede. Far spostare la gente sul palco senza che nessuno se ne accorga o riuscire a comunicare con gesti e capirsi subito.

Ha questa intesa con Salvatores?
Lavoriamo in grande sintonia. Entrambi amiamo le persone garbate e ben educate. Del resto se non si sa stare nelle regole, non si possono trasgredire. Anche il nostro lessico è lo stesso, così non c’è mai spreco di parole.

L’ha tatuato?
Certo, gli ho fatto un veliero, la mia specialità.

Un grande artista che ha conosciuto?
Più di tutti ricordo Ionesco a Parigi. Ero giovane e improvvisamente passeggiavo con uno che studiavo sui testi di storia del teatro. Lui era surreale, come le cose che scriveva. Ricordo che andavamo al Café de la Paix, le prime macchine per l’espresso di Parigi. Entravamo insieme e ordinava lui: due campari soda. Ma per sé e alle nove del mattino. Poi un cappuccino e una brioche. Prima di rincasare si riempiva di caramelle alla liquirizia, si avvicinava alla moglie e le sfiatava in faccia: «Salut, ma chérie», con l’entusiasmo di un bambino.

Teatro alla Scala – Gioacchino Rossini La Gazza Ladra  Dirige Riccardo Chailly – Regia di Gabriele Salvatores – Scene e costumi di Gian Maurizio Fercioni (12 marzo, repliche: 15, 18, 22, 26, 29 aprile; 2, 5, 7 maggio)