Smarriti nell’interregno: una ricognizione su di noi

In Letteratura, Weekend

Disordine, incertezza, violenza, un mondo in cui tutto è fragile, tutto è provvisorio, tutto traballa compresa la nostra fiducia in noi stessi: dopo la modernità liquida di Bauman è questo l’interregno in cui viviamo secondo Carlo Bordoni (e non solo, se ne parla assai tra letteratura e filosofia). Ma come scrive Ernaux: ‘Stiamo mutando. Non conosciamo ancora la nostra nuova forma’

Gli Anni di Annie Ernaux è un libro che intreccia storia personale e storia collettiva nel tentativo di restituire il percorso della Francia (e per estensione dell’Occidente) dall’immediato secondo dopoguerra ai nostri anni duemila. Nella narrazione di Ernaux si percepisce bene il senso di un continuo cambiamento, di una modificazione radicale nella vita delle persone man mano che il racconto del noi va avanti. Verso la fine del libro (siamo nei primi anni duemila) si legge, infatti: «Stavamo mutando. Non conoscevamo la nostra nuova forma». La scelta del verbo è probabilmente una coincidenza, ma a noi lettori italiani non può non richiamare quella mutazione antropologica di cui scriveva sui giornali Pasolini fra il ’74 e il ’75.

Una mutazione, scrive Guido Mazzoni ne I destini generali, «legata allo sviluppo del capitalismo nell’epoca del suo trionfo». Mazzoni ripercorre questa svolta fino ai giorni nostri, scandendola in tre fasi: la prima è quella individuata da Pasolini, il cui epicentro possiamo far convergere nel Sessantotto; la seconda coincide più o meno con gli anni Ottanta ed è riassumibile nella metonimia berlusconi (con la b minuscola perché è lo spirito del tempo, non il Silvio in carne e ossa: il 1980 è l’anno della Marcia dei Quarantamila e della nascita di Canale5); infine l’avvento della rete dalla seconda metà degli anni Novanta. Il senso che qualcosa sia cambiato in questi ultimi vent’anni è dilagante, lo testimoniano il fiorire di etichette: post-verità, post-postmodernismo, ipermodernità, metamodernismo, post-capitalismo, e potremmo continuare all’infinito. Stavamo mutando. Non conoscevamo la nostra nuova forma. Quanto più emblematico è allora il titolo dell’ultimo romanzo di Sheila Heti: How should a person be? La domanda sembra scontata e banale, dalla notte dei tempi l’uomo si chiede chi è e come dovrebbe essere, ma nella narrazione di Heti la questione assume caratteristiche diverse: io-sheila-heti-che-vi-racconto-questa-storia-mi-chiedo-come-devo-costruire-la-mia-identità-perché-io-donna-del-ventunesimo-secolo-ho-perso-tutti-i-punti-di-riferimento-e-non-so-più-nemmeno-cosa-sia-l’identità-e-mi-sforzo-per-cercare-di-capire-quale-sia-la-mia-nuova-forma.
Stavamo mutando. Non conoscevamo la nostra nuova forma.

Piccola divagazione: l’autofiction. Se ne parla tutti i giorni (e spesso molti di quelli che ne parlano non hanno ben capito di cosa stanno parlando) come della nuova tendenza della letteratura contemporanea. Che cos’è, se non il tentativo del soggetto che si rappresenta di cercare una nuova forma? Il narratore di Nel mondo a venire di Ben Lerner non solo cerca di capire quale sia la sua forma, ma cerca anche di costruirsela. Lo stesso si potrebbe dire per quella strana terza persona de Gli Anni. 

Ancora Annie Ernaux: «Eravamo sopraffatti dal tempo delle cose. Si era rotto l’equilibrio mantenuto a lungo tra la loro attesa e la loro comparsa, tra la privazione e il possesso. La novità non suscitava più dibattiti né entusiasmo, non ossessionava più l’immaginario. Era integrata nel quadro consueto dell’esistenza. Forse un giorno sarebbe scomparso il concetto stesso di nuovo, come già, inesorabilmente, stava scomparendo quello di progresso». L’idea di nuovo e di progresso sono stati due dei cardini della modernità. Così come quella di futuro (implicito in queste righe della Ernaux), che insieme a quella di passato si appiattisce in un processo di presentificazione: life is now non è solo uno spot pubblicitario Vodafone. Non esiste più il passato da cui imparare, scrive Hamilton Santià su Prismo, né la tensione verso il futuro, ma solo l’istante, viviamo in un “supermarket dell’immaginario” dove le ‘merci’, attraverso un meccanismo diffuso di memefication, rifiutano il processo dialettico con il contesto e possono essere utilizzate in qualunque modo, più che depotenziate, ri-potenziate. Tutto è uguale a tutto, e se vale tutto, niente vale. La condizione di eterno presente (tipica delle comunità premoderne) è caratteristica delle società digitali nelle quali ha perso di importanza il valore della memoria, affidata alla tecnologia e ridotta a strumento di pronto intervento.

L’annullamento di questi ideali ha fatto fiorire una ricca saggistica sulla fine della modernità. Uno fra gli ultimi a parlarne è Carlo Bordoni che però fa un passo in più nel suo ultimo libro Fine del mondo liquido¸ edito da Il Saggiatore. Bordoni, che ha a lungo lavorato con Bauman, sostiene che il paradigma della modernità liquida non è più adeguato per rendere conto del tempo presente che lui propone di chiamare, riprendendo una formula di Gramsci, interregno. Bordoni individua due periodi di transizione che ci portano fuori dalla modernità. Il primo è la postmodernità (70s e fine XX secolo), la cui ultima fase è la modernità liquida di Bauman; il secondo è quello che lui propone appunto di chiamare interregno il cui punto di inizio può essere fissato nell’undici settembre. L’interregno è un momento di transizione, indica comunemente quella fase di stallo fra la morte di un sovrano e l’incoronazione di uno nuovo e, fuor di metafora, significa per Bordoni il passaggio fra la modernità e qualcosa di altro che non sappiamo ancora cos’è e facciamo fatica a immaginare. Stavamo mutando. Non conoscevamo ancora la nostra nuova forma.

L’interregno, per come viene descritto da Bordoni, è un deserto di valori dove vagano senza meta individui spaventati e soli, è caratterizzato da (1) ignoranza: l’uomo ha perso la bussola, non ha più le coordinate per orientarsi; (2) impotenza: viene meno quella che in sociologia viene chiamata l’agency ovvero la capacità di agire: «Siamo immobilizzati nella consapevolezza di non poter far nulla per uscirne», scrive Bordoni, «l’unica speranza è l’attesa». Il problema dell’agency è al centro anche di Stato di minorità di Daniele Giglioli: spogliato dalla capacità di agire l’uomo non può far altro che ricadere in quello stato di minorità di cui parlava Kant. Il Novecento era il secolo della lotta, il politico, sostiene Giglioli, prevaleva ancora sull’economico. Ma dopo il sostanziale fallimento del ’68 (e del ’77) si è diffuso un pervasivo senso di sterilità e di esaurimento politico. Il colpo di grazia lo hanno dato gli anni ’80, l’esito degli scioperi dei minatori nel Regno Unito (’84-’85) e ben riassumibile nella massima della Thatcher: «There is no alternative». La tesi della fine della storia di Francis Fukuyama è stata derisa e criticata da più parti, ma, a ben guardare, è stata assimilata al livello dell’inconscio culturale. Ne prende atto anche Mark Fisher in Capitalist realism e inizia il suo saggio illustrando il diffuso senso che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico possibile, ma anche che è ora impossibile addirittura immaginare un’alternativa coerente a esso. D’altronde, nella convinzione che il capitalismo sia il male, siamo liberi di continuare a parteciparvi: il consumismo occidentale si illude, scrive Fisher, di non essere intrinsecamente implicato nel sistema globale di ineguaglianze e può, quindi, risolverlo. Basta comprare i prodotti giusti. Compra un frappuccino da Starbucks e salva una vita. Compra quattro mele bio a 8€/kg e salvi addirittura il mondo.

 

La raccolta differenziata sembra essere diventata l’unico spazio di azione, su tutto il resto aleggia un’ombra tetra di disillusione. D’altronde la smaterializzazione del lavoro conseguente al post-fordismo, sfaldatosi il legame con il territorio e il frequente cambio di lavoro imposto dal precariato hanno comportato una maggiore difficoltà nell’organizzazione di un corpo sociale in grado di fare: venuto meno il contatto fisico dei corpi (che come ha mostrato Judith Butler è fondamentale per la costruzione di un movimento) è venuta meno anche la solidarietà sociale.

Piccola divagazione #2: La stanza profonda di Vanni Santoni, candidato allo Strega 2017, racconta la storia di un gruppo di amici che per vent’anni si ritrovano tutti i martedì in un seminterrato per giocare a Dungeons&Dragons. Il libro di Santoni (idem per i rave di Muro di casse) può essere letto anche come il tentativo di ricreare il senso di una comunità attraverso la vicinanza fisica dei suoi partecipanti: per questo i protagonisti del libro disdegnano i giochi online. Il Gdr è controcultura perché mostra che ci si può divertire, avere un’esperienza esaltante, attraverso la cooperazione, senza pagare nessuno e senza sottoporsi a nessuna autorità – tutto questo in una società che premia solo la competizione e basata sulla sopraffazione: in D&D tecnicamente non ci sono vincitori, si è tutti contro il demogorgon (criptocitazione da Stranger Things). Mostra inoltre una comunità formatasi spontaneamente, correndo il rischio della ghettizzazione da parte dei “fighi”, per scegliere di crearsi un proprio mondo, con delle proprie regole: è la vittoria della fantasia sull’omologazione, «chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno».

Tutto questo ci porta al terzo aspetto dell’interregno secondo Bordoni: (3) l’umiliazione, ovvero la perdita di fiducia in se stessi che rende insoddisfatti e aggressivi. Ognuno è lasciato a se stesso, in uno spazio dominato sempre più dall’assenza di regole. Henri Laborit, ne L’inhibition de l’action, racconta di un esperimento condotto su tre topi e su questo stesso esperimento si apre Stato di minorità. I tre topi sono soggetti a delle scosse elettriche, dolorose, ma non mortali. Al primo topo viene data la possibilità di uscire dalla gabbia. Al secondo no, ma gli è stato affiancato un altro topo su cui sfogare aggressività e frustrazione. Al terzo entrambe le opportunità – fuga e conflitto – sono precluse. Sottoposti a controlli, i primi due non accusano sintomi. Al terzo, che ha subìto impotente il sopruso, vengono diagnosticate perdita di pelo, ipertensione arteriosa e ulcera gastrica. L’impossibilità di agire, sottolinea Giglioli, fa ammalare.

Una situazione del genere, in cui dominano disordine, incertezza, violenza, in cui tutto è fragile, tutto è provvisorio, tutto insicuro, può sembrare desolante e senza via d’uscita alcuna (nessuna ne individua, per esempio, Mazzoni nei suoi Destini generali), ma il discorso di Bordoni è finalizzato ad aprire uno spiraglio di speranza: «Sembra un mondo in rovina, mentre è solo un mondo che cambia» (ma purtroppo nessuno ci assicura che quel che verrà dopo sarà meglio). Stavamo mutando. Non conoscevamo ancora la nostra nuova forma.

 Piccola divagazione #3: Ben Lerner (ancora). Nel mondo a venire mette il protagonista di fronte a due catastrofi, una personale (una malattia potenzialmente mortale), una collettiva (l’uragano che si sta abbattendo su New York). Queste due catastrofi portano il narratore a riconsiderare la sua vita e il suo agire, lo portano a riscoprire l’importanza dell’idea di futuro nel modellare le nostre vite presenti. Inoltre, attraverso un’abile e calcolata manipolazione della verità referenziale e della finzione narrativa, Lerner porta avanti un discorso sull’importanza di recuperare la facoltà di immaginare strade diverse rispetto alla contingenza del presente. Un altro mondo è possibile, alcuni indizi sono già qui, dice Lerner, ma non ci dice come sarà questo mondo. Nel mondo a venire, in questo senso, è il grande romanzo ottimista dell’interregno. Walter Siti ne rappresenta il rovescio pessimista.

Ma torniamo a Bordoni. Di fronte a una situazione di questo genere – di disorientamento, spaesamento (Spaesamento è il titolo di un romanzo molto bello di Giorgio Vasta dove non a caso si parla della metonimia berlusconi), di scoraggiamento – le reazioni all’interregno sono principalmente tre: la nostalgia, l’attesa, l’egoismo. La loro combinazione ci impedisce di vedere chiaramente la realtà, coperta da un velo di rabbia, impazienza, sfiducia e rassegnazione: la fine della modernità mette in discussione i valori tradizionali di riferimento come la comunità (leggi anche: globalizzazione), cancella gli strumenti di comprensione della complessità sociale come la divisione in classi, vanifica le sicurezze economiche e mette in crisi la fiducia nel progresso con il conseguente affievolirsi della promessa di uguaglianza sociale. Risultato: clima di incertezza sociale.

Uno degli aspetti più caratteristici di questa situazione – sotto gli occhi di tutti eppure forse il meno notato – è la de-massificazione. Il processo di demassificazione spezza i legami familiari e apre le porte all’incertezza esistenziale: la famiglia nucleare guadagna sempre più spazio e per la prima volta nella storia dell’umanità le persone che vivono da sole sono più delle coppie (sulla situazione della vita di coppia oggi ho già scritto qui). A questo si accompagna l’esaltazione dell’individualità, della singolarità, della particolarità, della differenza, a scapito della socialità, favorendo l’isolamento, la solitudine dell’individuo. L’etica del «non me ne frega un cazzo» (la citazione è da Le particelle elementari, capolavoro di Michel Houellebecq, ma potrebbe anche benissimo essere del mio vicino di casa) rappresenta il compimento dell’individualismo e al tempo stesso «è lo stadio estremo della crisi dei vincoli politici che la modernità liberale comporta» (Mazzoni). Gli ovvi corollari sono l’indifferenza per la vita pubblica e la diffusione anarchica del diritto di parola (sui social network possono parlare tutti – e lo facciamo).

Se la massa scompare è rimpiazzata dalla moltitudine. La moltitudine è il soggetto sociale tipico di un sistema mediatico many-to-many. Guardiamo alla produzione culturale: il mainstream sta diventando un concetto sempre più sfumato perché il panorama odierno è semmai caratterizzato da una moltiplicazione esponenziale di satelliti più o meno grandi che oscurano il centro. Detto altrimenti: ci sono tante nicchie più o meno grandi, alcune di loro si contendono il centro, ma nessuna riesce a imporsi. Provate a contare i subreddit di Reddit: non ne uscirete vivi.

I subreddit mostrano anche come nella comunità attuale i requisiti di convivenza e prossimità non siano più necessari. Prevale l’aspetto comunicativo e la creazione di un ambito comune di interessi e/o finalità su cui costruire rapporti di natura temporanei (vedi anche: Henry Jenkins, Cultura Convergente). «Comunità usa e getta» le chiama Bordoni, si sganciano dalla relazione fisica e materiale con il suolo e la terra, si configurano nell’appartenenza a un’idea di sé all’interno di una cultura. Ma la mancanza di fisicità impedisce il formarsi di una coscienza di classe: lo stesso concetto di lotta di classe nell’interregno risulta obsoleto, perché obsolete sono le classi: non si combatte più fra proletari e borghesi, tra lavoratori e padroni. La nuova lotta di classe (è il titolo di un pamphlet recente di Slavoj Žižek) si combatte tra «disoccupati e privilegiati, tra cittadini e politici, tra emarginati e ben pensanti, tra pensionati ed esodati» cioè tra parti in causa che vivono all’interno della stessa instabilità sociale in cui i ruoli possono invertirsi senza preavviso. La difficoltà cui ci troviamo di fronte, dunque, è quella di ripensare e reimmaginare forme di impegno e di azione. Una difficoltà che sembra insormontabile. Il fatto che le banlieues parigine in fiamme non esprimessero alcun programma, per esempio, ci dice molto sulla nostra situazione ideologico-politica: il fatto che un’opposizione al sistema non riesca a presentarsi come alternativa realistica, o per lo meno ad articolare un progetto utopico sensato, ma solo a prendere la forma di un’insensata esplosione, è un grave atto d’accusa contro la nostra situazione. «Quel che è più difficile accettare» scrive Žižek «è proprio l’assenza di senso di queste rivolte: più che una forma di protesta, sono – con Lacan – un passage à l’acte: un movimento impulsivo che si trasforma in azione, che non può essere tradotto in un discorso o in un pensiero e porta con sé un intollerabile carico di frustrazione» e testimonia l’incapacità di situare l’esperienza della propria situazione all’interno di un contesto significativo. E lo stesso discorso potrebbe allargarsi al dilagare dei populismi. Che fare dunque? Bordoni non offre una risposta a questa domanda, ma solamente un’analisi lucida e convincente della società contemporanea. Resta viva, però, in lui, la convinzione che solo grazie al disordine si può prevenire a un nuovo ordine.

Piccola divagazione #4: la stessa intuizione animava Edoardo Sanguineti negli anni ’50 quando scriveva Laborintus, opera di distruzione di ogni codice, rappresentazione totale del caos eppure animata dalla speranza che attraverso il disordine e l’alienazione si potessero superare il disordine e l’alienazione stessi. Tutta la carriera poetica e intellettuale di Sanguineti è mossa da questa convinzione. Purtroppo, però, le poesie non cambiano il mondo, ma la letteratura, se interrogata nel modo giusto, sa dirci qualcosa del mondo in cui viviamo, non perché sia necessariamente migliore della comunicazione di massa o perché, come sostengono erroneamente molti ingenui, un romanzo può dirci di più di cento trattati di sociologia; ma perché ci mostra cosa succede ad abitarlo, il mondo, cosa accade a viverlo altrimenti. E la letteratura di questi anni sembra davvero una letteratura dell’interregno: piena di frustrazione sull’agire politico, di isolamento dell’individuo, di smarrimento, di rabbia, di tentativi frustrati di vivere in modo alternativo in un mondo sempre più tecnologizzato, sempre più caotico, sempre più difficile, protesa nello sforzo di immaginare e reimmaginare di nuovo una comunità.

Corollario alla piccola divagazione #4: Un uomo di passaggio è il titolo del primo romanzo di Ben Lerner. Come Adam Gordon, il protagonista narratore, forse siamo tutti uomini di passaggio in questo interregno, che non sanno dove andare, si sono persi in un mondo ugualmente perso, ugualmente in attesa di ritrovare la bussola. Stiamo mutando. Non conosciamo ancora la nostra nuova forma.

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