Christoph Marthaler porta in scena al Piccolo fino all’11 maggio un lavoro che, evocando il teatro dell’assurdo, concretizza in scena l’incomprensibilità che produce solitudine: E se ne lascia contagiare.
Teatro d’Europa: pare una dichiarazione di coerenza con la propria identità, da parte del Piccolo Teatro, aver portato in scena Il vertice, di Christoph Marthaler. Sono sei, gli interpreti in scena, tra cui si segnala – non (solo) per campanilismo – Federica Fracassi, con Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Lukas Metzenbauer e Graham F. Valentine, e quasi altrettante le lingue parlate, in un pastiche tra inglese, tedesco, francese e italiano, dove la molteplicità è l’unica possibile chiave di lettura di un testo che rifiuta qualsiasi altro tipo di appiglio ad una – anche labile – linearità. A meno che non si voglia riconoscerla nella sua assenza, e in quel teatro dell’assurdo cui sembra far riferimento il calapranzi che, a fondo scena, introduce o elimina, almeno temporaneamente, elementi della scena. Qui, però, non siamo in un seminterrato ma, almeno apparentemente, al suo opposto: sulla cima di una montagna, pur se in uno spazio chiuso che, oltre al rifugio di montagna, evoca tuttavia anche una sorta di bunker militare fatto di brande spartane e mobilio a scomparsa. Il vertice è, infatti – in tutte le lingue attraversate da questo testo – a sua volta portatore di molteplicità: la cima del monte che fa vestire tutti i protagonisti come alpinisti d’altri tempi, e un incontro tra capi di Stato, che (a voler leggerla in questo senso) sarebbero qui restituiti in tutto il loro rovesciamento grottesco.
Si parlano, in effetti, ma non si capiscono né paiono avere davvero l’interesse di farlo, rincorrendo ognuno un proprio filo di pensieri nei momenti in cui è il discorso a farla da padrone. Se quello di Marthaler è indiscutibilmente un teatro di parola, si tratta però spesso di un protagonismo in assenza: è una parola che si frantuma, si fa urgenza e poi suono (anche nell’organetto tipicamente alpino suonato in scena) prima accogliente e poi sempre più debordante, e infine canto, acquisendo una dimensione che da conviviale diventa via via quasi rituale.
Non resta allora che lasciarsi trasportare da un lavoro che procede per frammenti appena giustapposti per scene a se stanti costruite su una coralità al tempo stesso strutturale e sfuggente: ciascuno è solo, anche – e forse soprattutto – quando è insieme agli altri, sembra suggerire Marthaler, e un incontro si può forzare (come dovendosi proteggere da un esterno inospitale) e si può mettere in scena, fingerlo. come si finge di capire la lingua dell’altro e le sue urgenze. Ma si può, davvero, realizzare?
Il regista svizzero suggerisce, poeticamente e surrealmente, ma non risponde. Forse, come scrisse proprio Pinter a proposito della sua commedia “in modo che il suo pubblico completi la sua opera, e risolva a modo suo queste questioni irrisolvibili”.
Ne emerge però un lavoro a cui, al netto della indubbia qualità degli interpreti, tutto il resto è demandato all’interpretazione: la critica ironica “al potere e alla società borghese”, come si è scritto, ma anche il rinvenimento di un impianto narrativo.
Un viaggio suggestivo e multiforme, dove la musica si prende lo spazio più vistoso, ostico come una scalata anche quando vuole evocare il calore di un incontro incontro, tolti gli scarponi: ma del resto, proprio questo stimola il gusto degli appassionati di ferrate, e il pubblico tributa al lavoro un’accoglienza dove quel calore, invece, si sente eccome. E forse nasconde la perplessità di chi è arrivato su a notte alta, col fiato corto, e si sta ancora guardando intorno per capire, esattamente, cosa dovrebbe vedere.