Impegnativo dire che si è trovato, finalmente, l’erede di Romain Gary. Scoprite chi è, chi il suo protagonista, quale la banlieue parigina in cui si muove. E poi: poesia tedesca, ripescaggi molto più che sfiziosi, un salto al cinema. E storie: di alberi, sorelle e italiani alle prese con la Storia
Mokhtar Amoudi, Le condizioni ideali, traduzione di Elena Cappellini, Gramma Feltrinelli, 2025

E intanto una cosa diciamola subito, diciamola per prima: gran libro. Uno dei romanzi più belli del ‘900, La vita davanti a sé di Romain Gary, ha finalmente trovato un erede. Lì era il bambino Momo, figlio di una prostituta uccisa dal suo protettore e allevato dall’anziana e monumentale ebrea Madame Rose, a farci da guida, con un linguaggio vertiginoso impastato di sordido e di sublime, nell’universo multietnico duro ma solidale di Belleville. Qui non c’è il quartiere parigino oggi ampiamente gentrificato che ha fatto da sfondo anche alla saga dei Malaussène di Daniel Pennac, ma la banlieue La Courneuve ribattezzata Courseine, la temibile “93” esplorata e raccontata dal cinema e dal rap.
Le condizioni ideali, titolo ironico sulla vita in un girone infernale, comincia in maniera candida e brutale, consegnandoci un personaggio, il piccolo Skander, fratello ideale del piccolo Momo: «Non avevo chiesto niente. Entrato all’ospedale di Clamart per dei punti di sutura, ormai mi ci tenevano in cattività. Ero prigioniero. Mi cercavano una malattia nella testa; avevo i sintomi. “Perché ti sei gettato nel vuoto? Anche solo da un metro? Potevi farti molto male,” mi ammonì il medico che mi aveva ricucito. Non risposi, sperando che un’assistente sociale venisse a liberarmi. Ma non veniva».
Skander è stato abbandonato quando aveva un anno dalla madre algerina, una donna senza fissa dimora che ogni tanto lo viene a cercare e ha vissuto tra una famiglia affidataria e un’altra. Approdando infine da Madame Khadija, anch’essa algerina, che lo tiene assieme ad altri bambini per intascare i soldi dell’assistenza sociale.
Skander ha però una caratteristica insolita a quelle latitudini: gli piace studiare, i libri lo appassionano, arriverà a leggere persino il vocabolario, pagina dopo pagina. Il bambino abbandonato e affascinato dalle parole e dalle storie ha voti eccellenti, è un alunno ideale segnato a dito con ammirazione da chi lo segue. Rischia di perdersi nell’adolescenza turbolenta, in un quartiere dominato dalla violenza e dall’ossessione per i soldi da trovare a qualsiasi costo. Entra nel giro dello spaccio, lo incastrano, rischia di perdere tutto e di tornare alla casella di partenza, ma giudici minorili e assistenti sociali attenti lo riacciuffano per la collottola permettendogli di completare gli studi. E la mela di scarto («Mi sono convinto di essere cattivo e inutile, perché nessuno in tempo di pace abbandona il proprio figlio. Ero stato maledetto dalla nascita»), amalgama tra il piccolo Momo e il Martin Eden di Jack London (viene da aggiungere: e i personaggi di Balzac alla conquista di Parigi e del mondo), riuscirà ad andare all’università e a laurearsi.
Detta così, questa storia largamente autobiografica sembra una favola bella con il conclusivo “e vissero felici e contenti”, anche se l’autore avverte: “Sono un’eccezione statistica”. Fa la differenza, e ha fatto la fortuna del romanzo, la freschezza dello sguardo, la vis comica che riscatta una vita difficile, la girandola linguistica e stilistica delle invenzioni.
Della favola ha tutte le apparenze anche la storia della pubblicazione. Mokhtar Amoudi, nel 2022, è seduto in un caffè della Madeleine assieme a un amico al quale racconta il romanzo che ha appena terminato di scrivere. In un tavolo accanto è seduta una signora che, prima di andarsene, gli lascia il suo biglietto da visita. È una lettrice di Gallimard, non ha potuto fare a meno di ascoltare e gli suggerisce di mandare il dattiloscritto alla casa editrice. Amoudi segue il consiglio e si ritrova pubblicato, in cima alle classifiche e candidato ai maggiori premi letterari. Se non è vera, la storia è molto bene inventata. A sigillo dell’autenticità di quanto ha scritto, l’esordiente vince anche il Goncourt dei detenuti: la sua resa di una vita di banlieue spesa fra la strada e i servizi sociali, per loro, è impeccabile.
Gottfried Benn, Aprèslude, traduzione di Ferruccio Masini, Einaudi, 1966

Conosco poco il tedesco Gottfried Benn (1886-1956). So che fu figlio di un pastore protestante prussiano e che, destinato a studiare teologia, in aperto contrasto con il padre divenne medico: dermatologo e specialista in malattie veneree, mestiere che esercitò in ospedale, nell’esercito e presso il proprio studio privato, fino a pochi anni prima della morte.
So che aderì al nazismo e ne fu corifeo, entrando in aperta polemica con l’esule Klaus Mann. Un amore che durò poco: all’adesione del 1933 seguirono dopo uno-due anni il disincanto e la ripulsa, e nel 1935 Benn venne allontanato dalle fila naziste, i suoi testi banditi come “arte degenerata”.
So che il suo pensiero fu comunque antimoderno, conservatore quando non reazionario, sempre. Di derivazione nietzschiana ma in conflitto anche con Nietzsche (e tuttavia: il “nazismo dionisiaco”, come possono essere ciechi gli intellettuali!), per l’arte contro la storia, per la staticità e l’immutabilità della condizione umana contro ogni idea di progresso, pessimista e nichilista («Il nichilismo è la felicità», da una sua tarda professio fidei nella Germania di Adenauer).
So che ha scritto romanzi e prose (in Italia li ha pubblicati Adelphi). Da ragazzo avevo letto le sue poesie espressionistiche Morgue, colme di decomposizioni, di sadomasochismo e umori splatter (un’atmosfera per alcuni versi simile si coglie anche nel coevo Libro di devozioni domestiche del giovane Brecht, temperato però da ben altra pietas).
I suoi versi estremi, Aprèslude, traggono poesia dall’impoetico, dalla lingua degli affari e dai gerghi delle professioni, dall’aridità quotidiana. E approdano tuttavia, nel tono notturno e grave del congedo, a una per lui inedita, accorata misura di accettazione, di trepida simpatia per l’umanità.
Esseri umani ho incontrato che,
quando si chiedeva loro il nome,
timidamente – come se non potessero pretendere
di possedere anche un solo modo di chiamarsi –
«signorina Christian» rispondevano e poi:
«come il nome», e ti volevano
agevolare la comprensione
nessun nome difficile come «Popiol» o «Babendererde» –
«come il nome» – prego, non incomodi
la sua facoltà mnemonica!
Esseri umani ho incontrato che
coi genitori e quattro fratelli in una stanza
crebbero, di notte, con le dita nelle orecchie,
studiavano al focolare,
si fecero strada, di fuori belle e ladylike come contesse –
di dentro miti e operose come Nausicaa,
avevano la fronte pura degli angeli.
Mi sono spesso domandato e non ho trovato risposta
da dove venga la dolcezza e il bene,
nemmeno oggi lo so e ora devo andare.
Per una sorta di strano contrappasso la poesia che dà il titolo a questa raccolta è diventata, benché mi ripugni l’elitismo di Benn, uno dei mantra che mi hanno accompagnato negli anni (l’altra è Narcissus pseudonarcissus di Elio Pagliarani, scritta nell’anno della mia nascita, il 1953). Qui il “nichilismo felice” di Benn, la sua visione dell’uomo come essere puramente biologico (il “maiale” della sua gioventù espressionista) mi pare approdare a un ordine cosmico delle cose, a una sorta di appena immalinconito stoicismo, non tanto lontano dal “Sysyphe heureux” di Camus: il continuare a portare la propria pietra, anche se rotolerà a valle.
Ci leggo, magari forzando l’autore, la necessità di accettare la vita e le sue sfide anche quando l’esito al quale tendiamo non è certo, anche quando pare che il cimento sia impari alle forze. Ci leggo, contraddicendo l’autore (ma i poeti spesso scrivono versi che a mente fredda non condividerebbero), un’elegia della disponibilità contro l’isolamento aristocratico. Ecco la poesia:
Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.
Durare, aspettare, ora giù a fondo,
ora sommerso ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:
la natura vuol fare le sue ciliegie,
anche con pochi bocci in aprile
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.
Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.
Patrizia Carrano, Il cuore infranto della quercia, Aboca, 2025

Una quercia maestosa, una farnia centenaria che nel bosco di Manziana vicino al lago di Bracciano, il bosco dove gli assassini fascisti sotterrarono il corpo di Giacomo Matteotti, spicca solitaria nella radura. Un cane meticcio, Spinotto, incrocio fra uno spinone e chissà cos’altro, che nel prato compensa con corse festose la cattività domestica e cittadina. E la padrona del cane, Carlotta, segnata da un lutto recente (il fratello maggiore Luca, finanziere spericolato, aggredito da un tumore si è ucciso con un colpo di pistola al cuore, lasciandola straziata e in un mare di guai), che all’ombra di quella quercia recupera per qualche ora la serenità perduta e forse mai posseduta fino in fondo.
La cupezza degli ultimi mesi l’ha fatta ringhiosa e insofferente, imbozzolata in se stessa, la quercia è la sua pace provvisoria. Ma un giorno tiepido di settembre la donna scopre che la quercia non c’è più. L’ha estirpata la forestale: la pianta era ammalata, avrebbe contagiato anche gli altri alberi del bosco. Al ritorno, in macchina, il “cuore faticatore” le batte come impazzito: forse è il dispiacere, lo smarrimento, forse un infarto. Carlotta affida il cane Spinotto a un’amica veterinaria e va a farsi visitare in ospedale. Finisce in terapia intensiva, vittima della “sindrome di Takotsubo”, nome bizzarro di una nassa che i pescatori giapponesi usano per intrappolare i polipi. Da noi la sindrome è detta “del cuore infranto”. L’intelligenza artificiale, che consulto mentre scrivo, mi dà una definizione sintetica: “Una patologia cardiaca che può essere scatenata da un forte stress emotivo o fisico. Si caratterizza per una disfunzione temporanea del ventricolo sinistro del cuore, che può simulare un infarto”.
Cinque giorni di ricovero, una vita da ricapitolare, un cuore che l’ha messa in guardia contro l’isolamento e le sue derive, una misantropia che nel finale si aprirà al mondo, vengono scandagliate in lunghi flashback da una prosa flessuosa e sontuosa insolita e benvenuta in questi tempi di scrittori paratattici. Il romanzo di Patrizia Carrano è tutto questo e molto di più. Anche una ricapitolazione dei temi cari all’autrice: la sindrome della malamata che, da Cattivi compleanni in poi, accompagna tutte le sue eroine. E il soccorso, la salvezza che vengono da una natura fatta anche di querce, cani e lupi, compagni muti e affascinanti forse più degli umani.
Si può riassumere una vita all’insegna araldica di quercia, cane (e lupo)? Raymond Queneau lo ha fatto con il romanzo in versi Quercia e cane (“Nacqui in quel di Le Havre un ventun di febbraio / del novecentoetre./ Mia madre era merciaia e mio padre merciaio:/ fremevan dal piacer”). Lo fa anche Carrano, ma qui non ci sono fremiti né esultanze. Perché Carlotta è arrivata al mondo indesiderata, quando il fratello maggiore Luca aveva diciott’anni. Un incidente di percorso, che ha impedito il desiderio di sua madre di riacquistare la libertà. Ed è stata accudita con scrupolo ma senza slanci di affetto.
Di una lunga catena di piccole, sommesse infelicità tramandate di generazione in generazione si nutre la vita dei più. Anche quella di Carlotta, che trova se stessa, ventenne, quando scarta dai suoi studi di lettere (una vita futura da professoressa) scegliendo di andare a studiare i lupi che hanno ripopolato i Monti Sibillini. Per anni farà vita selvaggia, scoprendo quanto, nell’essere genitori accoglienti e nel creare branchi solidali, nella loro voglia di indipendenza e solitudine, I lupi siano simili ai migliori degli umani. Sono pagine che si leggono con ammirazione, che si fanno trepide quando ci si avvicina all’oggi che vede i lupi meno protetti e più esposti allo sterminio che in passato.
In quei quattro anni di fervido selvaticume, Carlotta condivide ricerche e amore con il naturalista canadese William, alto massiccio e rosso di pelo. Si scopre incinta quando lui se n’è tornato in patria e sceglie di non informarlo e di crescere la figlia Silvia in solitudine, per non intrappolarlo com’è stata intrappolata sua madre. E di lasciare andare Silvia quando la ragazza, brillante matematica, sceglie di studiare e lavorare negli Stati Uniti.
Accogliere, amare senza soffocare e farsi di lato: il compito arduo e fondamentale dei genitori, degli umani. In questo romanzo pieno di mondo nell’apparente misantropia, attento ai nostri compagni muti senza sdolcinature da possessori di pet, sta la presa tenace di pagine che vanno sottopelle e ci fanno tana.
Miracolo a Milano. Parole, immagini e immaginari, a cura di Sergio Seghetti e Valentina Fortichiari, Oligo, 2024

A cento metri da casa mia, in via Valvassori Peroni, ogni sabato si tiene un mercato che va sino a Lambrate, per quasi un chilometro. La via ospita una delle più vivaci biblioteche di quartiere di Milano, un centro sportivo, un campo di rugby, alcune scuole. Nonché i giardini pubblici dedicati a Cesare Zavattini e, nella vicina via Golgi, il giardino intitolato ad Anna Carena, la vecchia aristocratica costretta a baraccarsi e con donna di servizio al seguito di Miracolo a Milano. Nel 1950, quando Vittorio De Sica girò proprio in via Valvassori Peroni il suo capolavoro fiabesco facendo costruire una baraccopoli, lì attorno era campagna. Finta la baraccopoli del film, veri gli slum di cui era piena Milano, che nei primi anni dopo la guerra e i bombardamenti aveva 400 mila senzatetto. In quello stesso periodo Michelangelo Antonioni girava, nel Quadrilatero del Silenzio dietro Corso Venezia e vicino alla liberty Via Mozart, Cronaca di un amore. Più tardi sarebbero arrivati Totò e Peppino smarriti davanti al Duomo in attesa di incontrare la “malafemmina” e gli immigrati lucani di Rocco e i suoi fratelli.
A Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, regista e sceneggiatore del film (Miracolo a Milano è la trasposizione di un suo romanzo del 1943, Totò il buono), ma anche a Milano, è dedicato un libro ricco di suggestioni, impreziosito dalle foto in gran parte inedite di Mario De Biasi. Lo hanno curato Sergio Seghetti, bibliotecario e infaticabile animatore culturale, e Valentina Fortichiari, a lungo leggendaria responsabile dell’ufficio stampa Longanesi e nipote di Zavattini. Dentro ci si trovano la genesi del film e la sua accoglienza: vinse la Palma d’oro a Cannes, in Italia spiacque alle bigotterie uguali e contrarie dei conservatori e dei progressisti. Ai primi perché troppo “comunista”, ai secondi perché troppo fiabesco e consolatorio e poco neorealista. Dentro c’è anche la Milano di quegli anni e il suo fervore (tutta da leggere la bella testimonianza di Cochi Ponzoni, che abitava nei pressi e bambino vide girare il film), i ritratti dei protagonisti. E i riconoscimenti più disparati: a Spielberg, come è noto, i barboni che sorvolano Piazza del Duomo a cavallo delle scope rubate ai netturbini ispirarono la scena finale di E. T. l’extraterrestre con i bambini sulle biciclette volanti; al giovane Gabriel Garcia Marquez in Italia per studiare cinema Miracolo a Milano suggerì, ha confessato in un’intervista, addirittura il modo di narrare, il realismo magico che avrebbe innervato Cent’anni di solitudine. Fino all’onda lunga cittadina e di quartiere, con i murales, le proiezioni pubbliche, gli spettacoli, le mostre.
Il film, che è un atto d’accusa contro l’avidità predatoria dei ricchi e mostra un’empatia per gli ultimi niente affatto consolatoria, è invecchiato bene. I poveri disturbano doveva chiamarsi all’inizio, ma il titolo allarmò produttori e politici. E comunque i poveri che abitano la baraccopoli non sono angeli di bontà come Totò-Francesco Golisano nato sotto un cavolo e cresciuto in orfanotrofio, ma homeless dai desideri spesso smodati: il consumismo del miracolo economico è di là da venire ma viene in qualche modo, se non profetizzato, colto nell’aria.
Oggi che nel nuovo miracolo a Milano si palesano l’impazzimento della bolla immobiliare e l’espulsione dei meno abbienti – e di larghe fette del ceto medio – dalla città. Che gli sfratti sono 2.000 all’anno, le richieste di alloggi popolari si sono impennate a 16.830 evase per il 2,5 per cento. Che le domande di alloggio temporaneo sono 5.200 accolte soltanto per il 12,5 per cento dei richiedenti. Oggi che più d’uno – la cronaca ogni tanto dà conto dei casi più clamorosi – abita su una panchina, in macchina, nei box messi a disposizioni di amici e parenti, non è esercizio futile leggere questo libro importante e rivedere il film al quale rende omaggio.
David Niven, C’era una volta Hollywood, traduzione di Claudio Gallo, Settecolori, 2025

«A Los Angeles gli scrittori si ubriacavano, gli attori diventavano paranoici, le attrici incinte e i registi incontrollabili». A Hollywood David Niven arriva poco più che ventenne, nel 1934. Ha lasciato l’Inghilterra e l’esercito, dove si era creato la fama di indisciplinato conoscendo anche la cella di rigore. Prima ha fatto il piazzista di liquori a New York, il pescatore alle Bahamas, il gun man in Messico occupandosi dei fucili noleggiati dai cacciatori americani. Nel cinema entra dalla porta di servizio, come comparsa a due dollari al giorno: al Central Casting lo hanno schedato come “tipo anglosassone n. 2008”, il che non gli impedisce di esordire come peone messicano. Lo impone il connazionale Leslie Howard (il debole Ashley Wilkes marito di Melania-Olivia de Havilland in Via col vento) e Samuel Goldwyn lo mette sotto contratto, l’esordio è nel 1935 in Splendore. Da lì in avanti sarà un crescendo di ruoli cesellati con sobria misura, impeccabile eleganza e distillato humor. Militari irreprensibili e qualche volta spie, giovani scapestrati perbene (il Bertie Wooster di Wodehouse), ladri gentiluomini (Raffles, il Sir Charles Lyttondella prima Pantera rosa) e gentiluomini tout court come il Phileas Fogg del Giro del mondo in 80 giorni, che rilancia la sua carriera nel 1956 dopo un periodo di appannamento portandolo a vincere, di lì a poco, l’Oscar con Tavole separate.
Attore da me molto amato, Niven è stato scrittore non dissimile dall’attore: scintillante e talentuoso, narratore di razza tra i molti sfornatori seriali di memorie. La sua autobiografia La luna è un pallone, uscita nel 1971, vendette cinque milioni di copie. Da noi la pubblicarono Sperling & Kupfer e Mondadori, andrebbe ristampata. Il suo libro più felice, ricco di aneddoti e di franchezza ma privo di cattiveria e sensazionalismi, è tuttavia questo C’era una volta Hollywood che si sorseggia, per una volta il risvolto di copertina ha ragione, come una pregiata bollicina.
Tenaci amicizie maschili: la cerchia esclusiva degli inglesi expat, lo scorbutico Humphrey Bogart, il ragazzone Gary Cooper, il meticoloso Cary Grant. Tra tutti Clark Gable ed Errol Flynn. Solitario, grande pescatore, in attesa spasmodica di un figlio che arriva tardi il primo. Compagno di bisbocce e sottaniere seriale il secondo, al quale Niven riserva una beffa memorabile che non è lecito svelare. E una vasta e variegata processione di presenze femminili fra le quali spicca la timidissima Greta Garbo, «una bambina che viveva in un mondo segreto».
Un memoir senza cattiverie, abbiamo detto. Niven ha una parola buona e ironica per tutti (anche per il magnate della carta stampata William Randolph Hearst, il Charles Foster Kane bersaglio di Quarto potere, e soprattutto per la sua amante storica Marion Davies) ma non risparmia gli strali. Ne sono oggetto soprattutto le due pettegole di Hollywood, le pestifere Hedda Hopper e Louella Parsons, tratteggiate come giornaliste d’infimo rango dedite all’invenzione diffamatoria e al ricatto. E i fanatici che a Hollywood fiancheggiano la caccia alle streghe maccartista.
Le mille luci delle feste, le villone da mille e una notte, le crociere sugli yacht e i ristoranti di lusso (memorabile il ritratto di Romanoff, falso principe russo e truffatore che allestisce il più celebre dei deschi per i vip), ma C’era una volta Hollywood si impenna e vola soprattutto quando racconta il rovescio del mito: le povere case e le misere paghe delle comparse e le loro battaglie, le ragazze che rinunciano al sogno di recitare per darsi al più antico dei mestieri, il sottobosco degli allibratori e degli agenti, i capricci dei divi e dei tycoon. In quelle pagine, il memoir di Niven non è distante dal Giorno della locusta, il capolavoro che alla fabbrica dei sogni dedicò Nathanael West (lo ha ancora in catalogo Einaudi, lo raccomando nella bella versione di Nicola Manuppelli per Mattioli 1885). Traduzione dignitosa, con ricco apparato di note e qualche piccolo svarione.
Gianni Oliva, 45 milioni di antifascisti, Mondadori, 2024

«In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti». La battuta sferzante è attribuita a Winston Churchill. Grande tempra d’uomo che a battute – e altro, cibi e bevande perlopiù letali ai comuni mortali – ci è campato fino a novant’anni. Capace di liquidare, nello stesso periodo in cui liquidava l’Italia, il successore laburista al governo della Gran Bretagna con una frase al vetriolo: «Al 10 di Downing Street si accostò un taxi. Non ne scese nessuno. Era Clement Attlee». E di archiviare una serata non proprio comme il faut con un verdetto senza appello: «In effetti sarebbe stata una splendida cena, sarebbe bastato che il vino fosse freddo come la minestra, la carne al sangue come il servizio, il brandy invecchiato come il pesce e la cameriera disponibile come la duchessa».
La battuta di Churchill, pur nella forzatura polemica, coglie però nel segno e offre lo spunto allo storico piemontese Gianni Oliva per interrogarsi sul “voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il ventennio”. A partire dall’epurazione che non ci fu o ci fu in minima parte, con i vertici della burocrazia, dell’esercito, della magistratura, del corpo insegnante che rimasero al loro posto, non inquisiti o, quando processati, assolti con tutte le scuse del caso (sulla vicenda ha scritto un libro assai documentato Mimmo Franzinelli: L’amnistia Togliatti, Mondadori 2006 e Feltrinelli 2016).
Esemplare è la storia di Gaetano Azzariti, un uomo per tutte le stagioni. Napoletano, rampollo di una famiglia di giudici, magistrato anch’egli ma senza nessuna voglia di esercitare, abile come tecnico e soprattutto come tessitore di relazioni, entra nell’ufficio legislativo del ministero di Grazia e giustizia sotto Giolitti e ne diventa responsabile sotto Mussolini. È dunque l’estensore o il controllore-vidimatore di tutte le “leggi fascistissime”, dall’istituzione del Tribunale speciale al Codice Rocco che reintroduce la pena di morte, al Testo unico di pubblica sicurezza. Nel 1938 viene messo a capo del Tribunale della razza, che deve certificare chi è ebreo e chi no. Istituzione turpe e racket infame, dove i magistrati vendono l’attestato di arianità in cambio di mazzette (gli ebrei che sborsano sono costretti, scriverà un disgustato Piero Calamandrei, a dichiararsi “figli di puttana”: a giurare cioè che la loro madre li ha concepiti con un “gentile”, tradendo il marito). Defenestrato Mussolini, Azzariti diventa ministro guardasigilli di Badoglio e nel 1945, a fascismo archiviato, capo di gabinetto e consulente di Palmiro Togliatti, segretario del Pci e ministro di Grazia e giustizia. Passata la fase dell’unità nazionale, Azzariti si avvicina alla Democrazia Cristiana e Giovanni Gronchi lo nomina giudice costituzionale. Della Corte costituzionale è addirittura presidente dal 1957 fino alla morte, nel 1961, diventando per paradosso l’estensore antifascista che abroga le leggi fasciste da lui scritte sotto il regime.
In maniera meno vistosa di Azzariti, numerosi sono però i casi di chi ha passato indenne le forche caudine. Perché? Perché è difficile sostituire un apparato statale con un altro, cosa riuscita nella storia soltanto alla Rivoluzione francese. Ma soprattutto perché l’Italia, che ha inventato il fascismo esportandolo in tutto il mondo, ha fatto finta di averlo subito mentre in realtà il consenso di massa per il regime, fino agli anni ‘40, è stato alto. Perché l’Italia, che ha cominciato la guerra a fianco di Hitler invadendo Francia e Russia, Grecia e Jugoslavia e Albania, per tacere dell’Africa, e l’ha persa firmando la resa incondizionata agli Alleati, ha fatto finta di averla vinta combattendo assieme a loro nell’ultima fase del conflitto.
Artefice della narrazione consolatoria e assolutoria è Alcide De Gasperi, capo del governo succeduto al partigiano Ferrucci Parri, con l’assenso tacito o esplicito delle altre forze politiche.
Quando si presenta alla conferenza di pace di Versailles (l’Italia non è tra le 27 nazioni vincitrici), il leader democristiano racconta di un regime brutale che ha tenuto sotto il suo tallone gli italiani, combattuto prima dall’opposizione e poi dall’eroismo dei militari e dei partigiani.
Le cose non stanno esattamente così: gli oppositori, durante il ventennio, erano una minoranza valorosa e spesso eroica, ma sparuta. Come lo saranno i militari e i partigiani: la parte migliore dell’Italia, che ci ha riscattati dalla vergogna della complicità con il nazismo. Ma, anche in questo caso, una minoranza: poco più di 200 mila uomini, attivi soprattutto nel Centro-Nord. E invece la Resistenza diventa lotta di popolo, insurrezione di massa, alibi e lavacro purificale che assolve tutti e mette tutto a tacere.
Vengono così archiviati i nostri crimini di guerra: l’Onu ha compilato una lista di militari da perseguire, in cui figurano anche 2.000 italiani. Non verranno processati, e per non smuovere le acque saranno insabbiati anche i processi per i crimini di guerra nazisti in Italia: il famigerato “armadio della vergogna” con le ante rivolte verso il muro, che conteneva oltre 700 pratiche “provvisoriamente archiviate”, verrà scoperto soltanto negli anni ‘90.
E viene rimossa la vicenda delle foibe, minimizzato con fastidio o con vergogna l’esodo in Italia di 300-400 mila dalmati, istriani e giuliani tra la fine degli anni ‘40 e i primi ‘50. Motivo di imbarazzo per il governo: nessuna nazione vincitrice si vede amputata territorialmente e costretta ad accogliere tanti profughi. E per i comunisti, costretti a tacere per vassallaggio a Mosca sui crimini dei partigiani jugoslavi contro gli italiani. Quando sarebbe stato più utile e saggio condannare le atrocità titine ricordando che erano una risposta, esasperata e sanguinaria, alle stragi fasciste e all’italianizzazione forzata di quei territori durante il ventennio e la guerra.
Da noi molta polvere è andata sotto il tappeto, mentre altrove il collaborazionismo è stato punito (la Francia ha celebrato 185 mila processi per chi si è venduto ai tedeschi, con 125 mila condanne) e i condannati sono stati privati dei diritti politici. In Italia, invece, la prima pattuglietta dei deputati neofascisti (il Msi nasce nel 1946) era composta per tre quarti da beneficiari dell’amnistia Togliatti. È potuto così accadere che i loro discendenti graziati abbiano recitato la parte delle vittime, fornendo in molti casi manovalanza alle stragi e da ultimo, molto poco abiurando di quel passato, siano andati (democraticamente, sia chiaro) al governo. Ma questo, nell’Italia dei trasformisti e dei gattopardi, non sconcerta e non indigna più.
Mark Twain, L’uomo che corruppe Hadleyburg, traduzione di Leonardo Gandi, e/o, 1992

L’ossessione americana per il denaro, metro di ogni successo e virtù secondo l’etica protestante e per contrappasso sterco del demonio, in un racconto comico perfetto nell’ideazione, nell’orchestrazione e nella ferocia.
La cittadina di Hadleyburg ha fama di inossidabile onestà, di granitica incorruttibilità. E ne trae orgoglio. Il paradiso degli onesti è un piccolo mondo limitato e gretto, dove la stessa virtù è «debole come l’acqua», perché non è mai stata messa alla prova. Un forestiero, che qualche anno prima da Hadleyburg ha ricevuto un torto, decide di vendicarsi. Con una beffa atroce che smascheri l’ipocrisia del paese. Fa arrivare in casa di due onestissimi poveracci un sacco pieno di monete d’oro. Con una lettera: alcuni anni fa ero disperato e senza un soldo, avevo perso ogni mio avere al gioco e uno di voi mi soccorse, dandomi venti dollari e dicendomi una frase che non dimenticherò mai. Non sono in grado di rintracciare quell’uomo, ma la vostra comunità di onesti sì. A lui dunque vadano i quarantamila dollari di questo sacco, se fra trenta giorni si farà identificare ripetendo la frase che mi disse. E che io affido a una lettera sigillata all’interno del sacco.
In un crescendo comico e drammatico, i due poveracci tentano di imboscare il denaro, ma nella precipitazione dei primi istanti ne hanno già parlato con il direttore del giornale locale. Il segreto è quindi pubblico: il paese si pavoneggia di una virtù che sta facendo il giro dell’America, s’interroga sull’identità dell’ignoto buon samaritano e sulle parole dette al forestiero. L’identificazione è unanime: un uomo così generoso non poteva essere che il misantropo del paese, ormai trapassato. Chiunque riesca a indovinare la misteriosa frase può dunque essere il legittimo proprietario delle monete d’oro. La suspence sale, la girandola comica crepita, quando una lettera viene recapitata ai diciannove maggiorenti del paese. Rivela, fingendo che ognuno di loro sia il destinatario esclusivo, la formula magica.
Lo scioglimento finale sarà, come s’immagina, tumultuoso e travolgente, smascherando assieme ai diciannove virtuosi pretendenti al tesoro (diciotto in realtà, il diciannovesimo salvato in quell’istante verrà sommerso nelle ultime pagine) anche l’ingiustificata reputazione del paese. Che cambierà nome e sceglierà un nuovo motto: “Inducici in tentazione”.
La fusione tra moralismo e comicità è esemplare e colloca il racconto di Twain tra i classici americani sulla cupidigia, accanto a La casa del tesoro di Hawthorne e al Tesoro della Sierra Madre di B. Traven (il romanzo, ma anche il film di John Huston). Il racconto venne pubblicato nel 1900, a ideale introduzione del secolo.
Serena Vitale, Cartella clinica, Sellerio, 2025

Una vita di mezzo perché il dolore si lenisca quanto basta per aprire la porta alle parole. Per prendere congedo, per rendere omaggio. Una vita di mezzo perché Serena Vitale, slavista e autrice di libri memorabili (Il bottone di Puskin, 1995, è un’opera perfetta, e Il defunto odiava i pettegolezzi dedicato a Majakovskij non gli è inferiore; e sarà un caso ma raccontano due vite che terminano in maniera drammatica, una per duello e l’altra per suicidio), accantoni i prediletti russi per raccontare una vicenda intima, che sanguina ancora. La morte della sorella maggiore Rossana in un letto dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
Alta e slanciata, bella come Audrey Hepburn, pianista precoce alla quale tutti pronosticano una carriera da concertista, Rossana ha vent’anni quando muore. Il referto stilato dal medico di guardia annota, dandole per defunto anche il padre vivente: “Vitale Rossana, fu Alfredo. Data di nascita: 19. 05. 1941. Data dell’ammissione: 08. 09. 1960. Diagnosi: sindrome schizofrenica. Annotazioni: Deceduta alle 18.15 del 24 settembre 1961 per probabile emorragia interna in schizofrenica con stato di eccitamento. Il medico di guardia, Dott. Giovanni Martinotti”. Poche righe dopo lo stesso medico aggiunge: “Rettificato in collasso cardiocircolatorio”.
Tutto qui, un “chissà che cosa è accaduto” con le postille dei giorni successivi: il medico, chiamato dall’infermiera di guardia e dalla suora, annota che “il corpo era caldo ed estremamente pallido dal capo ai piedi” e ipotizza uno “stato febbrile con anemia” che avrebbe portato al collasso. L’autrice annota, implacabile: «Esistono cadaveri rubizzi?», confessando che quel fare le pulci alle prose traballanti e vaghe di medici che non sanno capire e curare i loro pazienti resta a distanza di anni l’unica sua rivalsa.
Se la morte è un piccolo mistero alimentato dalla sciatteria burocratica del referto, sono un calvario l’esplosione della malattia e le cure inefficaci in ospedali che, gioverà sottolinearlo con l’autrice, in quegli anni sono atroci lager, come racconta anche un libro bello e doloroso di Giorgio Boatti, Abbassa il cielo e scendi, Mondadori, dedicato a un fratello inghiottito dalla malattia mentale.
Rossana è sorella maggiore savia e giudiziosa, riservata e poco propensa alle esplosioni di allegria di una famiglia brindisina caotica e vivace: una madre maestra elementare che si vive malmaritata con un uomo più grande di vent’anni ma “quando l’ho conosciuto era bellissimo”, un padre musicista e insegnante con fama di eccentrico, un nonno ricco e generoso con la sua legione di amanti, uno zio omosessuale colto e gentile al quale il nonno dà del “finocchio”.
Talvolta persino si rideva, per citare un bellissimo memoir (se il titolo vi incuriosisce, lo ha scritto l’ebreo viennese naturalizzato britannico Erich Fried, scampato all’Olocausto, e in Italia lo ha pubblicato Feltrinelli). Ma l’allegria diventa sgomento quando la ragazza radiosa e studiosa, che già bambina cercava di cavare gli occhi alle bambole “perché mi guardano”, adolescente comincia a osservarsi per ore allo specchio e a trovarsi brutta: dice di avere i denti storti e non è vero, si vive strabica e non è così, riferisce che i coetanei la molestano e inventa. Fino a diventare agitata, a insultare i parenti che prima rimproverava se dicevano una parola sconcia, a pensarsi e volersi morta.
“E io dov’ero?” si chiede Serena Vitale, tredicenne quando la sorella più grande, che l’ha sempre protetta e difesa, deraglia nel 1958. Non si è accorta di niente, forse l’ha messa in allarme la volta che Rossana ha squarciato con le forbici un pullover per trasformarlo in giacca, la volta che ha trafitto con gli spilli le sue foto (gli occhi, ancora gli occhi).
Imparerà presto la litania dei farmaci che dovrebbero curare Rossana – perfenazina, reserpina, clorpormarzina – , la sequenza dei trattamenti: coma insulinico, elettroshock, l’ipotesi della lobotomia. «Per fortuna la lobotomia (tremenda operazione: con una specie di punteruolo si praticavano due fori in corrispondenza delle ossa craniche frontali del paziente, quindi si iniettava nella corteccia alcol etilico puro per disgregare le connessioni nervose), la tecnica operatoria ideata dal portoghese António Egas Moniz, premio Nobel per la medicina nel 1949, non era più praticata.
Oggi, attraverso il vetro del computer, bacerei la pagina di Wikipedia in cui si legge: “Egas Moniz rimase paraplegico dopo aver ricevuto un colpo d’arma da fuoco nel 1949 da uno dei suoi pazienti…”».
Impossibile spiegarsi come sia potuto accadere. Per un momento Serena adulta, ricorrendo alla testimonianza di un coetaneo che frequentava, crede di aver trovato il bandolo della matassa: un amore di Rossana concluso da un addio. Ma deve arrendersi.
«“Capisco”… “certezza”…
Per presunzione sono caduta nella sciagurata trappola del “causa-effetto”.
La schizofrenia non è un’influenza: “Ieri ho preso freddo, oggi ho la febbre”.
È un tragico addio alla realtà di cui va rispettato il mistero. Perdonami, Rossana».
Un libro che resta, un atto d’amore davanti all’angelo del giudizio perché nessun essere che ha vissuto venga dimenticato.