Luis Ortega, dopo aver narrato in “L’angelo del crimine” le “gesta” del più famoso serial killer della storia argentina, si misura col parzialmente autobiografico “El Jockey”. Una ballata grottesca e malinconica dedicata ai reietti, a quelli che cercano il loro posto nel mondo senza temere di mettere in gioco tutto. Ne è protagonista Remo, che non riesce più a vincere e sta perdendo la donna che ama e il figlio che ha in grembo. Lo spiazzante racconto indaga gli abissi dell’umana fragilità senza tenersi in qualche modo al riparo dei cliché (positivi o negativi) che scandiscono la narrazione di genere
Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart), protagonista di El Jockey (2024) dell’argentino Luis Ortega, è un fantino di grande talento, amato dal pubblico e arrivato all’apice del successo, ma troppo fragile per sopravvivere in un mondo dominato da manager spietati collusi con la malavita. Dipendente da ogni possibile droga e da dosi sempre più massicce di alcol, comincia a perdere colpi, non riesce più a vincere in pista, e sogna un’impossibile rinascita con la fidanzata Abril (Úrsula Corberó) e il figlio che lei porta in grembo. Ma è difficile pensare a un nuova vita quando sei indebitato fino al collo, e incapace anche solo di guardare in faccia la realtà.
Anche Abril non ne vuole più sapere di questa relazione tossica e moribonda e gli lancia un ultimatum: “Se vuoi che ritorni ad amarti, dovrai morire e poi rinascere”. Detto fatto. Durante una gara importante, Remo vola fuori dalla pista e finisce in coma. Quando si risveglia, fugge dall’ospedale vestito da donna e comincia a vagare per Buenos Aires in stato confusionale. A chi gli chiede il suo nome, risponde di chiamarsi Dolores. Mentre tutti lo stanno cercando – i gangster per toglierlo definitivamente di mezzo, Abril perché vorrebbe forse dargli un’altra chance – Dolores/Remo incede per il mondo con aria spaesata ma con un’energia nonostante tutto contagiosa, inanellando incontri bizzarri e situazioni surreali.
Inutile dire che da questo punto in poi il film di Ortega rinuncia senza alcuna remora a mantenere fede a un patto di realismo con lo spettatore. Anzi, forse, a ben guardare, rinuncia all’idea stessa che debba esserci un patto da rispettare. E comincia a giocare, tra Kaurismäki e Lynch, con evidenti omaggi all’idea di mélo di Almodovar e persino qualche pennellata acida degna di un Kim Ki-duk. A proposito dell’evidente influsso dell’idea di cinema di Kaurismäki, non si può fare a meno di notare la presenza nel cast del direttore della fotografia Timo Salminen, collaboratore fisso del cineasta finlandese.
Il risultato è affascinante, ma anche assurdo e spiazzante. Una ballata grottesca e malinconica, dedicata ai reietti, ai freak, agli spostati, a tutti quelli che cercano il loro posto nel mondo senza temere di mettere in gioco tutto, anche la propria identità. Luis Ortega ha raccontato che all’origine di El Jockey c’è il bisogno autobiografico di raccontare la propria storia, in particolare il difficile momento di passaggio che ha vissuto proprio mentre stava cercando di realizzare il suo nuovo film, era prossimo a diventare padre e intanto si stava separando dalla madre di suo figlio. Una crisi di identità profonda che lui ha trasformato in un racconto noir bizzarro e commovente.
Dopo il thriller L’angelo del crimine, dedicato alle terribili gesta di Carlos Robledo Punch, il più famoso serial killer argentino, il 45enne regista sembra aver voluto misurarsi con gli abissi dell’umana fragilità, senza tenersi in qualche modo al riparo dei cliché (positivi o negativi che siano) che scandiscono la narrazione di genere. Ha così firmato un film spericolato e fascinoso anche se a tratti claudicante. Molto interessante, pur non essendo forse adatto a tutti i gusti.
El Jockey, di Luis Ortega, con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho, Mariana Di Girolamo