Il cuore bianco di Macbeth e Signora

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Nella versione di Michieletto dell’opera verdiana andata in scena alla Fenice di Venezia e diretta con sintonia da Myung-Whun Chung il materiale drammatico è arricchito di simboli e suggestioni, di immagini che trasformano le allusioni in verità lancinanti

Aveva torto Tolstoj: qualche volta anche le famiglie infelici si assomigliano. Ad esempio,  Macbeth in versione Michieletto riprende un repertorio nordico di drammi familiari che dal dichiarato Festen del “dogmatico” Vinterberg risale fino al Costruttore Solness di Ibsen. Non solo inconfessabili segreti e bugie di famiglia, ma anche il trauma di una figlia perduta che divora vita conscia e inconscia dei due protagonisti. Eccole le tragiche scene dal matrimonio di Macbeth e della sua Lady, richiedenti asilo in uno spazio mentale popolato di allucinazioni e incubi: solo qui potranno sublimare il loro dolore insopportabile, scambiandolo con il potere, con l’ascesa e l’inevitabile rovina del tiranno scespiriano più sanguinario, ma anche più malinconico e insicuro.

A questo punto il discorso sulla regia del Macbeth verdiano che ha inaugurato la Fenice andrebbe separato. Da una parte bisogna chiedersi se il lutto si addica a Macbeth, se non sia riduttivo rileggere la sua smania di potere secondo l’unica chiave del disordine psicologico. Dall’altra bisogna valutare se la messinscena sia all’altezza dell’obiettivo che il regista si è posto.

È probabile che la risposta a entrambi i dubbi sia sì. Ma partiamo dal secondo, che è più semplice. Damiano Michieletto ha certamente cambiato passo a partire dalla Damnation de Faust della scorsa stagione. La tipica “psicologizzazione” di qualsiasi materiale drammatico abbia di fronte c’è, ma sembra meno lineare di un tempo: il gioco teatrale si è arricchito di simboli, di suggestioni, di immagini ancora più evocative e misteriose che trasformano le allusioni in verità lancinanti. Così la meccanica di questo Macbeth è ambiziosa perché è concepita aperta, perché non si vincola a un unico senso e significato, e lo spettatore riesce a scorgere il sottosuolo luttuoso e terrificante in cui viene trascinato il protagonista.

 

 

Michieletto sviluppa un ritmo narrativo incalzante al di sotto dei veli di plastica che scorrono nella scena di Paolo Fantin, cupa, illuminata da neon ai lati come una partitura di luci e ombre – il light designer, da premiare, è Fabio Barettin. Durante lo spettacolo il sangue è bianco, come il cuore della Lady nella famosa frase: «Le mie mani hanno il tuo colore, ma avrei vergogna di avere un cuore così bianco» – anche titolo di un romanzo di Javier Marías. Il rosso è il colore indelebile della memoria, della perdita: il filo del palloncino, il triciclo alla Shining del figlio di Banco, il vestito della bambina come in Schindler’s list – i costumi sono di Carla Teti –, o ancora il motivo visivo ricorrente dell’altalena, dal sogno del trono all’incubo della foresta di Birnam. Peccato solo per alcuni momenti didascalici che non aggiungono nulla, o peggio rovinano un effetto costruito ad arte: lo scheletro messo in scena durante le apparizioni di Banco, le presenze di moglie e figli di Macduff davanti alle loro tombe, per giunta dopo il colpo di genio di “Patria oppressa” trasformato in funerale collettivo. Non occorre spiegare proprio tutto, anzi.

Più delicata la questione dell’antefatto su cui viene rimontata l’intera drammaturgia dell’opera. Che i coniugi Macbeth abbiano perso un figlio non è cosa nuova, basta ricordare la frase agghiacciante della Lady che comincia proprio con «Io ho allattato…». Del resto anche il Macbeth un po’ scolastico di Justin Kurzel con Michael Fassbender si apriva proprio con il funerale del figlio. Ma che si elimini del tutto il discorso politico, sulla violenza e il sacro, sul fato e la libertà che dramma e opera implicherebbero, limita forse troppo le possibilità offerte dal materiale drammatico; possibilità che non andrebbero recise in maniera così netta. Certo, il coraggio a Michieletto non manca mai. Ma il rischio è che in questo caso la complessità della fonte si ribelli a una lettura affascinante ma univoca – come è accaduto nel caso di Goethe per La damnation dell’Opera di Roma.

Quanto a dramma dell’interiorità, la direzione di Myung-Whun Chung non potrebbe essere più in sintonia con lo spettacolo. Un Macbeth che è tutto sonnambulismo, con improvvise esplosioni di terrore, trasognate allucinazioni timbriche e un lento incedere che non conosce catarsi: un capolavoro. Non resta che lasciarsi andare a questo flusso di rubati e di colori, che può passare dal brusco al morbido nello spazio di una battuta, che sa dare una dimensione sonora alla speranza persino nell’inferno senza uscita in cui vengono trascinati pubblico e cantanti. Primo tra tutti Luca Salsi, Macbeth solidissimo che arriva al meraviglioso arioso finale – dalla prima versione del 1847, anche se il resto dell’opera è nella versione riveduta e corretta del 1865 – con quell’incandescenza emotiva che aveva trattenuto fino a quel momento. Ottima prova di Vittoria Yeo, Lady sicura e coinvolgente, metà guerriera e metà sonnambula, interamente strindberghiana fin dall’aria di sortita. Eccezionale, inquietante, brumoso in senso buono il Banco di Simon Lim. Più ordinarie le interpretazioni di Stefano Secco e di Marcello Nardis, rispettivamente Macduff e Malcolm.

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