Una testa che pensa in endecasillabi. Giulia Martini, poeta. Oggi.

In Interviste, Letteratura

D’amore, di metrica, di lontananze. A colloquio con Giulia Martini, giovane e forte voce della poesia italiana contemporanea, autrice di “Coppie minime”.

Alla libreria Todo Modo di Firenze, Giulia Martini entra avvolta in lungo cappotto nero, indugia davanti allo scaffale “poesia”. Sembra che le voci dei libri la chiamino, senza concederle un margine di non risposta. Nata in provincia di Pistoia, classe 1993, alla sua seconda prova letteraria , Giulia Martini è una delle voci più interessanti della poesia contemporanea.
Con la raccolta Coppie minime (Interno Poesia, 2018), le sue poesie hanno cominciato a rimbalzare sui social, poi la consacrazione da parte di Alba Donati, la poetessa di Lucignana (Premio Metauro 2018, Premio Martoglio 2018), che in un post su Facebook ha scritto:

«Giulia Martini esiste. Non ce lo di dimenticheremo mai più. Spacca, si dice oggi. Cioè ti arriva a casa e non puoi più cacciarla. A 25 anni ha già scritto poesie che faranno storia. Ha un capacità sorprendente di tenere il fiato corto pur facendoci stare dentro il mondo»

Intervistare Giulia Martini è letteralmente un’avventura di parole; rocambolesca.
Vi porta subito nel suo mondo senza se e senza ma. Tra lei e voi c’è solo un altissimo mucchio di versi, in cui si tuffa di continuo per risalire divertita, musicata e piena di domande, di giochi, di poesie da declamare a voce alta.
Proverà in tutti i modi ad assumere il ruolo di intervistatrice, a giocare con i libri, con le parole e con le rime del mondo, a trascinarvi a Pechino, in Sicilia, all’ultimo piano di un albergo francese, ovunque non avreste pensato di arrivare.

La scrittura ha sempre fatto parte di te?

Scrissi la mia prima poesia, quando ero solo una bambina. Lo ricordo come fosse ieri. Da bambina avevo una gran paura del buio e quando vedevo la luna in cielo mi rattristavo, pensando che di lì a poco tutto sarebbe stato avvolto dall’oscurità. Una sera di maggio, ero sul terrazzo della cucina e vidi in un cielo ancora completamente azzurro un dischetto di luce. Era la luna che sorgeva e io fui toccata da un presagio di morte. Come poteva la luna stare in un cielo tutto azzurro?

La prima sorpresa fu una luna trasparente
che troneggiava in un cielo sempre azzurro
dove ancora volavano gli uccelli
felici di svolazzare in un cielo di primavera
travolto da un tramonto arlecchino
che non ci voleva lasciare.

 

Ma ancora prima di lune e cieli azzurri, come fu il primo incontro con i libri?

In casa mia non esistevano i libri. C’erano le riviste di motocross del mio babbo, qualche Liala di mamma e i gialli di mio nonno, ma nulla che assomigliasse a un classico della letteratura.

Un giorno, ero in un negozio con mamma, finimmo all’ultimo piano dove c’era un banco dei libri. “Da buoni toscani, come si fa a non avere una Divina Commedia a casa?”, mi disse mamma mentre con una mano pescava un grande tomo rosso con un fiore giallo in copertina. Non l’avesse mai fatto! Cominciai a leggere e leggere e leggere. Imparavo i versi a memoria, senza neppure capirne il significato. Ero solo una bambina, ma dentro di me si stavano formando il ritmo e la musica che da quel momento mi appartengono.

È lì che nasce il tuo scrivere in forme metriche chiuse?

Scrivo in forme chiuse, perché per me è naturale. È il ritmo dei miei pensieri, che nascono già in endecasillabi. Quando lessi Dante per la prima volta, capì che alla fine di quegli undici tempi c’era una rima e a ogni verso sapevo cosa aspettarmi. Il bello della metrica è che qualcosa arriva precisamente come tu la vuoi, il desiderio si realizza sempre. Mentre nella vita, nelle relazioni accade l’opposto. Per esempio, mi aspetto che una persona sia in un certo modo, la proietto dei miei desideri, la incastono nelle mie immagini mentali, poi quella persona si rivela diversa. La vita ha in sé una costante incertezza, mentre nella poesia il desiderio si realizza ogni volta.

Prima la poesia o il mondo?

Prima il mondo, sempre.

Se una cosa non ritorna alla vita, non mi interessa. Si tende a pensare che lo studio delle lettere non sia “utile”, quando invece non esiste chiave d’accesso ai sentimenti umani più efficace della letteratura. Gli scrittori mettono in quello che scrivono tutto quello che sono e tutto quello che sanno. Da un libro apprendi le cose più disparate che afferiscono a campi semantici anche lontanissimi dalle lettere. Per esempio, che il cane è una parte delle armi da fuoco l’ho appreso da Giorgio Caproni, il quale in una poesia accosta un “cane”, una “rosa” e “un’inesplosa domanda”, creando corrispondenze celate tra termini a prima vista distanti: Sapevo che non si trattava/di partenza, e nemmeno/ d’arrivo;/né sapevo/ se cane fosse o treno/o cuore (o la rosa, forse, della mia inesplosa/ domanda) l’avventura/morta che mi legava al palo/morto della mia paura.

Quindi, è stata la poesia la tua scuola dei sentimenti?

Mi innamorai per la prima volta quando a scuola stavo studiando lo Stilnovo. Non credo fosse un caso. Avevo quattordici anni e Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende s’apprese!

E poi, guarda che gioco di significati crea un verbo pluri-semantico come “apprendere”: l’amore che si attacca, si appiccica, e l’amore che si apprende e si impara, proprio come succedeva a me attraverso quel primo stilnovistico innamoramento.

A proposito d’amore, Coppie minime è un canzoniere d’amore?

Le coppie minime sono parole che si differenziano per un solo fonema e linguisticamente sono il luogo dove il linguaggio comincia a esistere. Qualcosa esiste perché è diverso e nella sua diversità crea un senso. Ma le coppie minime sono anche una metafora del discorso amoroso. Vedi, le persone sembrano scegliersi e attrarsi per una sostanziale uguaglianza di fondo, ma c’è una minima regione dove l’io e il tu differiscono, dove non sono compenetrabili, dove non coincidono perfettamente; ed è lì che comincia a esistere la più minima delle coppie, la più complessa di sempre, me-te (che nella raccolta non compare mai).

Scrivi per gettare un ponte su un vuoto, e se il vuoto un domani non ci fosse più?

Se il vuoto non c’è, lo creo.

Hai presente quel gioco dove c’è un quadrato fatto di tanti tasselli di legno che ricompongono una figura, ma manca un quadratino e tu devi ricomporre la figura spostando quel vuoto?

Questa è la poesia. Si tratta di ricomporre qualcosa spostando un vuoto, perché non esiste poesia senza mancanza. Basta pensare alla poesia delle origini, che nasce come amor de lonh, l’amore di lontano. Nel gesto poetico dev’esserci una tensione costante, sospesa sul vuoto che abbiamo dentro e fuori di noi. La mia docente di letteratura a lezione ci disse «Ogni poeta ha bisogno di una donna morta».

Cosa fa il poeta?

Il poeta domina la complessità, rende digeribile il lutto. Il poeta prende un dolore, lo spezzetta, lo misura, lo computa per dominarlo. Ma la poesia è anche testimonianza. Nella poesia si conserva la memoria della vita, come se fosse un dio che tiene insieme tutto il vissuto. Se la poesia fosse una carta magica, la sua proprietà sarebbe quella di contenere in sé tutto: il lutto e la memoria del lutto.

Ma se nella poesia si conserva la memoria privata e collettiva, i tuoi versi ci proiettano soltanto nel passato?

Io ho una temporalità dualistica, che si gioca non tanto tra passato e presente, quanto tra un “ancora” e un “già”. Mi interessa quello spazio metafisico di sospensione tra quello che c’era e quello che non c’è più. Si ritorna sempre lì, alla poesia come riflesso di una perdita, di un’assenza assordante che bisogna elaborare.

E lo spazio invece? C’è un luogo che ti appartiene e a cui tu appartieni?

C’è un non-luogo a cui appartengo, che è tutto il mondo tranne Quarrata in provincia di Pistoia, il paese in cui sono nata e cresciuta. Da Quarrata in provincia di Pistoia sono scappata quando avevo diciannove anni, andando a fare la gelataia in piazza Duomo per 3,80 euro all’ora.

Quarrata in provincia di Pistoia rappresenta l’immobilità e la morte e non penso che per lei avrò mai un canto d’amore.

Diversamente dal canto d’amore di Tu, paesaggio dell’infanzia che la poeta lucchese Alba Donati rivolge a Lucignana, suo paese natale.

È vero. Io e Alba, è un po’ come se si fosse una coppia minima e questa è una delle regioni in cui le nostre poetiche si differenziano.

Raccontami di te e Alba Donati.

Da quando ho incontrato Alba un mese fa, viaggio sempre con il suo libro in borsa. Lo leggo in continuo – a casa, sul tram – lo sfoglio, lo apro a caso in cerca di risposte, lo consumo pagina dopo pagina. A volte, mi diverto persino ad aggiungere versi, facendomi ispirare da quello che leggo. Quella tra me e Alba è un’affinità elettiva che non ha bisogno di macchinazioni (come invece spesso accade di questi tempi tristi). Il primo giorno in cui l’ho vista le ho detto che le avrei voluto bene per sempre.

Per un poeta è importante avere una guida?

Pensa a Dante! Lui non aveva una guida e se l’è creata. L’amicizia tra Dante e Virgilio nella Commedia è così bella che i lettori si ingannano pensando si conoscessero davvero, quando invece appartengono a epoche lontanissime. Quando nel XXX canto del Purgatorio Virgilio se ne va, Dante piange come un bambino. È bellissimo, non trovi?

Per me e Alba è stato un po’ così, un riconoscimento a posteriori, che esiste al di là di qualsiasi temporalità.

Leggere i maestri è la chiave per diventare bravi poeti?

Non si può scrivere senza aver prima tanto letto e tanto studiato. Scrivere poesia è prima di tutto leggere quella degli altri. Come diceva Roland Barthes, la scrittura è l’ultimo grado della lettura.

Poi, studiando letteratura, da parte mia c’è anche uno spiccato interesse linguistico: io voglio vedere cosa succede a riattivare la tradizione rovesciandola dal suo interno.

Questo rovesciamento nasce come gioco?

Io gioco un sacco e per me il gioco è una cosa seria. In una poesia di Coppie minime cito due celebri versi danteschi, tratti dal canto del conte Ugolino: il più celebre perché più del dolor poté il digiuno, in quanto oggetto di diverse interpretazioni, e e io sentì chiavar l’uscio di sotto. L’operazione che ho fatto è stata quella di spostare l’ambiguità da un verso all’altro, disseminando nel testo una serie di tracce che caricassero l’ultimo verso di una forte ambiguità sessuale; infatti “chiavare” ha un’accezione erotica e l’uscio rimanda al sesso femminile. Dunque, il lettore si chiede: si è consumato il rapporto erotico? O il tu se n’è andato?

Derelitto nel frigo l’ultimissimo
avanzo di tannino e proteine,
la zuppa di rabarbaro, la fine
mentre leggevo Sbarbaro, Pianissimo –
se la mangiassi, sarebbe un delitto.

Per colpa sua si compirà il delitto,
perché più del dolor poté il digiuno.
Ma che vuoi che ti dica? Io mi son uno
che se ha fame mangia, pago l’affitto
preparo buone cene e vado a letto.

Era il piacere di rientrare a letto
cercandola nel buio pian pianino
lasciando perdere sul comodino
i libri che volevo e non ho letto.

E poi sentii chiavar l’uscio di sotto.

Ti vesti sempre di nero. Perché?

I capi bianchi sono in realtà i capi storici dei Bianchi e, come ti dicevo, per me il mondo viene prima di tutto. Posso non vedere quello accade sulle nostre coste? Non basta un giro di lavatrice a cancellare un mondo di ingiustizie e io di capi bianchi da mandare nella lavatrice non ne ho.

Avresti potuto essere felice?
Te lo domandi spesso, mentre mandi
i capi bianchi nella lavatrice.

Perché allora non innalzare un grido civile, una poesia impegnata?

Nella prima versione di Coppie minime c’era una serie di “soglie”, di versi in corsivo che indicavano alcuni punti politici della raccolta, ma prima di mandare la silloge all’editore scelsi di toglierle. Mi sembrava generosa l’idea di consegnare un canzoniere d’amore. La letteratura nasce attorno al fuoco per trasmissione vocale degli aedi, nasce come purificazione dalla fatica dei campi e credo debba avere anche una dimensione ricreativa. È stato il mio piccolo dono ai lettori.

Giulia cosa vuol fare da grande?

Da grande – mi piace quest’espressione – vorrei fare la poeta, come Patrizia Cavalli. Dentro di me c’è già tutto: tutto quello che ho scritto e tutto quello che scriverò.

Scostandosi un ciuffo corvino dalla fronte, Giulia Martini mi guarda beffarda.
L’ultima domanda è la sua:
“Adesso si gioca però! Andiamo a prendere un po’ di libri in giro per la libreria e si fa la bibliomanzia.
Che dici?”.

 

Giulia Martini (Pistoia, 1993) vive a Firenze, dove si è laureata in Letteratura italiana contemporanea con una tesi su Patrizia Cavalli. Ha pubblicato Manuale d’Istruzioni (Albatros, 2015). Le sue poesie sono state ospitate sulle riviste Poesia e Gradiva e sulle antologie Secolo donna 2017: Almanacco di poesia italiana al femminile (Macabor, 2017) e Un verde più nuovo dell’erba. Poetesse “Millennial” degli anni ‘90 (LietoColle, 2018). A giugno 2018 pubblica la silloge Coppie minime (Interno Poesia), accolta con entusiasmo dalla critica.