«Favola» o del teatro che si trasforma

In Teatro

Rileggiamo «Favola» nel passaggio da teatro a cinema: tradurre significa tradire?

Tradurre significa tradire. Lo sa chiunque si confronti col passaggio da una lingua all’altra, così come la trasposizione da un mezzo a un altro. Lo sa bene anche Sebastiano Mauri, chiamato a confrontarsi con la trasposizione cinematografica del fortunatissimo spettacolo teatrale Favola, che ha calcato per centinaia di repliche i palchi italiani, partendo da quello del Teatro Franco Parenti.

Tradire non è però svilire, bensì trans-ducere, condurre un contenuto, un’opera, un messaggio, attraverso uno strumento nuovo, tutelandolo, proteggendolo, se possibile esaltandolo. É questo il compito che si è assunto il regista, e con lui l’intero gruppo che ha lavorato su questa trasposizione.

A cominciare dalle certezze: Filippo Timi, innanzitutto. Che è tornato ad incarnare Mrs Fairytale, la perfetta casalinga della provincia americana degli anni Cinquanta, costringendosi a un lavoro fisico se possibile ancora più complesso. Se infatti le tre ore sulla scena si contraggono in una pellicola che ne dura quasi la metà, la ripresa lo costringe a bustino, tacchi e tiranti quasi ininterrottamente per cinque settimane, condizionando inevitabilmente la propria percezione di sé più di quanto non facesse il palcoscenico.

Parte da qui l’evoluzione di Fairytale. Il personaggio svagato, surreale, grottesco ed esilarante conosciuto in teatro al cinema è colto nel profondo del suo intimo, della sua dolorosa prigionia, nell’angoscia autentica della riga di una lacrima che ne solca il volto dove l’ombra scura della barba si lascia intravvedere, laddove la femminilità mostrata in scena raggiungeva dei picchi di credibilità spiazzanti.

Si ride, anche al cinema, e molto – complice la estrema fedeltà al copione originale – ma è un riso che si permette molto meno di essere (anche) crasso. Vengono meno, non a caso, alcuni espedienti: molto meno calcata ad esempio la recitazione impostata, dove la vena classicheggiante delle z sonore e i toni acuti cedono più spesso a un tono realistico.

Nella “conduzione attraverso” il nuovo genere viene giocoforza a perdersi uno dei punti più caratteristici dello spettacolo, la esuberante vena dell’improvvisazione, che consentiva all’affiatatissimo cast fuochi di fila di battute  e giochi di parole, tra “Ufs” e declinazioni del verbo “cosare” che si protraevano per minuti e minuti, sostenuti da attori capaci di non rendere frustro anche un “sì” “no” “sì” “no”. Ripetuto elevando esponenzialmente le tre volte di prammatica che la recitazione teatrale imporrebbe.

Ma se si perde – inevitabilmente – la freschezza della risposta diretta del pubblico, del teatro però resta l’impostazione, che – pur se guadagna un paio di stanze, mentre due ombre si fanno i corpi di una straordinaria Piera Degli Esposti (la madre) e dell’angoscioso Sergio Albelli, (il marito Stan) – resta chiusa in uno spazio limitato – che pure non diventa mai oppressivo e claustrofobico.

Anche il numero di attori è insolitamente basso, tipicamente teatrale. Sono cinque, gli interpreti (se si escludono i pezzi di corpi che il cinema fa apparire, conservando l’ipercitazionismo filmico che era già nella messa in scena, e che qui passa dalle colonne sonore alle immagini, aggiungendo ad esempio una palese strizzatina d’occhio alle prime scene di Colazione da Tiffany).

Dei cinque, sono però tre a sostenere l’intera architettura, gli stessi della pièce. Se il poliedrico interprete dei tre – opposti – fratelli Stuart, nel passaggio dal teatro al cinema guadagna il nome di Luca Santagostino, la parabola tra palcoscenico e schermo regala sfumature anche alla compressa migliore amica e poi amante, Mrs. Emerald, la cui evocazione di Kim Novak resta salda, mentre l’iconismo di Fairytale passa da Grace Kelly a Doris Day.

Lucia Mascino nei panni di Emerald può qui sperimentare una umanità nello spettacolo meno vistosa, che culmina in una sensualità sfolgorante e in cui l’amore si trova espresso in una scena poetica, delicata e commuovente, da picco glicemico che pure riesce a non risultare stucchevole. (“con te, mi sento fatta di pane..”)

Anche la parte della Mascino non esce indenne (come quella di tutti i compagni di scena) del necessario taglio di parte dei lunghi monologhi che fa vittime di passaggi illustri: “Ecco a cosa servono gli abissi. Servono a dare un’immagine ad un dolore senza nome, come il mio”, ma significativi sono anche alcuni passaggi aggiunti, non soltanto nei dialoghi con i personaggi a tutto tondo che in teatro erano soltanto evocazioni.

Tutto ciò che c’è in più, al cinema, è infatti funzionale alla trasmissione di un messaggio. Laddove resta solida la componente di inno all’emancipazione femminile, che già nello spettacolo veniva recepita chiaramente, il cinema sceglie una via precisa di decodifica, che passa attraverso la contestualizzazione. Se la performance teatrale, infatti, era a tratti marcatamente astratta, folle, libera di schemi e stretta parente del teatro Kabuki, al cinema si esorbita sì, ogni definizione, ma tutto è coerente.

La favola assume nettamente i connotati del sogno, dopo il quale però non giungono gli ufo, ma la violenza di un risveglio che precipita l’intera favola nella lividezza del mondo in bianco e nero di una clinica psichiatrica.

Nell’Italia dalla quale l’America posticcia e zuccherosa del mondo di Fairytale, Emerald, Ted, Tim e Glenn (con cui la cagnetta impagliata Lady resta il solo, esile, filo di congiunzione) può essere solo sognata o indotta dai farmaci di cui cliniche private e manicomi ingozzavano le – già allora – tante Fairytale, che sentivano di non appartenere al genere in cui il loro corpo le costringeva.

C’è il presente, di chi sa comprendere e accogliere, accompagnando verso se stesso chi lotta con un altro sé, e che all’emergere doloroso di questo maschile alieno oppone il prorio amore: “Voglio che tu sappia, Fairytale, che anche così sei la donna più bella che abbia mai visto”.

Così, anche il riposizionamento ad arte di porzioni del testo originale conduce a questa lettura, e si chiariscono suggestioni, brevi evocazioni e rimandi. Le allusioni, e la voluta ambiguità di genere che permeava tutto lo spettacolo teatrale, e sostanziava la estrosa performance di Timi, programmaticamente in bilico tra maschile e femminile, gravidanze impossibili e comparse di peni, qui prende una lettura univoca, che cala tutte le (eventuali) aporie dentro una consapevolezza, negli anni Cinquanta italiani, ancora tutta da formarsi, in cui il termine trans-ducere acquisisce un senso anche letterale.

Così, la Favola cinematografica è – a tutto tondo – una storia di donne, al di là del proprio fisico. Di donne che si amano e formano una famiglia, di persone che vogliono essere – chiarisce il sottotitolo – libere di essere quello che sono, con una forza che lo spettacolo lasciava in nuce, consentendo a chi lo osservava di completare il percorso.

Al cinema è tutto più preciso e tutto viene affrontato, dalla scoperta di sè, alla strenua difesa di un amore che “non è una farsa” e a cui non basta essere vissuto al chiuso delle bugie, con una consapevolezza politica che ne fa un film calato con precisione nel presente ma abbastanza libero da evitare l’imbuto stretto del film esclusivamente a tematica.

É molto di più, è un prodotto (come già lo spettacolo) di alto livello su tutti i fronti tecnici, aspetto che ne fa una scommessa assolutamente vinta e (come lo spettacolo)  un potenziale cult.

Se la versione teatrale si poteva considerare a pieno titolo figlio delle follie del teatro di Copi, dei suoi transessuali e travestiti da Le scale del sacro cuore a L’omosessuale o della difficoltà di esprimersi, con un occhio agli ufo di Loretta Strong, nel film c’è – potente – l’Almodóvar di Tutto Su mia madre e il Todd Haynes di Lontano dal paradiso, nell’atmosfera patinata di Duglas Sirk. Ma c’è, soprattutto, quello che in certa misura mancava al teatro che di Fairytale faceva una stella, e che invece la favola esige: il lieto fine. Che, paradossalmente, si trova nella realtà, fuori dal sogno. Nella vita di ogni giorno delle tante famiglie arcobaleno che, oggi, non sono più una favola.

La programmazione completa.

 

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