“Fase Gardaland”

In Arte

Giulia Mozzini, classe 1995, ha fotografato Gardaland al tempo della pandemia: un modo evocativo e potente per raccontare quello che stiamo vivendo

Mentre vivevo il lockdown, mi sono soffermato più volte su come sarebbe stata la nostra vita se tutto fosse successo trent’anni fa. Senza serie da consumare, senza poter controllare gli aggiornamenti su internet in tempo reale, senza poter sentire gli amici con le videochiamate, senza smartworking. Quanto più soli e incerti ci saremmo sentiti tutti senza la possibilità di poter essere connessi a distanza.

In sintesi, la maggior parte degli strumenti utili a combattere l’isolamento utilizzava una connessione internet. Perciò per poter comprendere come sarebbe stato un lockdown in un mondo pre-cibernetico bastava mettersi a osservare coloro che sono ancora troppo piccoli per comprenderlo e per viverlo: i bambini.

I bambini non hanno potuto sostituire in modo virtuale ciò che il mondo esterno aveva loro tolto, e forse più di tutti hanno sofferto il trauma della reclusione forzata. Per questo il luogo scelto per il suo progetto da Giulia Mozzini, vincitrice del Concorso Europeo di Fotografia “Ginko Raw Edition”, in mostra presso lo Spazio Raw di Milano, diventa così iconico.

Giulia Mozzini, Fuga da Atlantide

“Io sono un habituè del luogo, e proprio per questo mi ha sconvolto così tanto tornarci adesso”

Gardaland è uno dei luoghi di infanzia per eccellenza, con spazi enormi e magici dove correre, giocare, impaurirsi e distrarsi, e mostra meglio di qualsiasi altro luogo il distacco di fase tra il mondo che esisteva prima e quello che è esistito dopo la pandemia che abbiamo vissuto.

Quello che nell’immaginario di tutti è un luogo gremito e affollato sembra ora una cattedrale nel deserto, un castello abbandonato appartenente ad un tempo lontano.

Più di tutto ciò che domina ogni angolo del luogo, ogni mattonella percorsa, è il silenzio. “Un silenzio assordante” ricorda la fotografa, “e il rumore echeggiante delle ruote delle montagne russe che corrono sui binari.”

Ciò che distingue un fotografo da una persona che fa una foto con una macchina fotografica è il saper lasciare la propria impronta stilistica su ogni immagine prodotta.

Giulia Mozzini, veronese classe 1995, lo fa benissimo. La sua palette di colori è inconfondibile, il suo taglio cromatico unico e caratteristico. I suoi colori così tenui, dolci e pacati sembra siano nati per questo momento, per questo irripetibile 13 giugno in cui le foto sono state scattate.

Giulia Mozzini, L’indiano

Le fotografie color pastello sono infatti di un tono allo stesso tempo fiabesco e malinconico, che accoppia la magia del luogo ad un velo di tristezza agrodolce, quella che accompagna il momento in cui vediamo un oggetto appartenuto alla nostra infanzia e ci accorgiamo con rammarico che non riesce più a trasmetterci le stesse emozioni di un tempo.

È il senso della rievocazione Proustiana, che attraverso piccoli dettagli di vita quotidiana risveglia momenti passati e sepolti all’interno del proprio subconscio che aspettavano soltanto di essere liberati, come i venti all’interno dell’otre regalato da Eolo ad Ulisse.

La fotografia di Giulia nasce già vintage, perché le sue immagini rievocano nelle nostre esperienze personali, così diverse ma allo stesso tempo così assimilabili, ricordi lontani e fumosi, che i colori tenui delle sue fotografie ci aiutano a ricostruire nella nostra mente di spettatori.

Guardando le fotografie in mostra, curata da Anna Mola, si riaccende quella stessa sensazione agrodolce in bocca. Questo sentimento viene esaltato dalla carta Verona, una carta particolarmente bianca e nitida che esalta i colori pastello delle fotografie, e dalla scelta di non apporre alcun vetro sopra di esse per non rovinare la palette cromatica con l’aggiunta di riflessi e ingrandimenti.

Molti fotografi hanno affrontato il tema della pandemia attraverso primi piani commoventi e struggenti. Giulia invece riesce a raccontare la pandemia in modo indiretto, fotografando quello che non c’è.

Il vuoto assordante di cui parlava è il vero protagonista delle foto, che fungono da memoriale per un periodo la cui caratteristica principale è stata l’immobilismo. E come i memoriali, queste foto evidenziano l’assenza di ciò che è improvvisamente venuto a mancare.

La spensieratezza, le code, le strilla dei bambini verso i genitori per chiedere di esaudire il loro ultimo desiderio, e le urla dei genitori verso i bambini per chiedere loro una tregua da quei movimenti forsennati; rumori assordanti che affollano luoghi fiabeschi e colorati. I bambini invece sono pacati, tranquilli, tenuti a bada senza che ci sia bisogno di nessuno che li tenga a bada, poiché le modalità di fruizione e sicurezza impediscono qualsiasi tipo di agitazione.

Fase Gardaland è il nome della serie, e rappresenta quella fase di limbo che è stata questa estate appena trascorsa, così diversa da tutte le altre. Un periodo non ben definito, vacillante e a tratti vuoto, pieno di incertezze e speranze, di paure e sorrisi ritrovati, di colori tenui che si fanno spazio nella nebbia dell’incertezza.

Come ogni bravo fotografo, Giulia Mozzini riesce a rievocare un momento storico e a renderlo in immagine meglio di quanto la nostra immaginazione sia mai riuscita a fare, regalandoci delle istantanee che resteranno incollate nel nostro immaginario.

Dopo essere usciti dalla mostra, quelle stesse fotografie sostituiranno le parole confuse con cui prima cercavamo di spiegare ad altri le nostre sensazioni. E cristallizzare le sensazioni, più che i luoghi e i volti, dev’essere uno degli scopi della fotografia contemporanea.

Fase Gardaland, Spazio Raw, Corso di Porta Ticinese 6, fino al 15.09.2020