La beffa di Falstaff in un sex club di Berlino

In Musica

Mario Martone mette in scena Falstaff all’opera di Berlino immaginando un centro sociale in stile Mitte e un inquietante luogo per incontri un po’ fetish per il finale. Daniel Barenboim sul podio e Michael Volle nella parte del protagonista, entrambi al loro debutto nell’ultima opera di Verdi

Difficile credere che un regista napoletano possa presentarsi a Berlino con un Falstaff  alla Fassbinder e avere successo. Invece è andata proprio così lo scorso 25 marzo: l’attesa produzione di Mario Martone, fresco di 7 dicembre alla Scala, ha avuto un trionfo nella nuova, vecchia Staatsoper di Unter den Linden, riaperta dopo sette anni di lavori e molte mani di rosa date agli esterni.

Sul podio Daniel Barenboim, al suo primo Falstaff, mentre per Martone non è certo un debutto, se si pensa ai Falstaff allestiti e ripresi a Parigi al Theâtre des Champs Elysées, per non parlare della prosa: un laboratorio tenuto dieci anni fa con i detenuti di Nisida e Renato Carpentieri – appena premiato ai David di Donatello – nella parte del cavaliere inglese a zonzo tra commedie e drammi storici scespiriani, tra comari cinguettanti e marziali giochi dei potenti.

La lezione di questo spettacolo è che a Berlino ci sono posti da cui non si esce incolumi nemmeno travestiti da Fassbinder. Se lo ricorderà il debuttante ma già memorabile Falstaff di Michael Volle, tradito dalle sue stesse voglie, quando gli sfugge di mano la situazione nel sex club  in cui Martone ha ambientato l’ultima parte dell’opera, la beffa alla quercia di Herne, con ruzzole e pizzicotti qui ritradotti in chiave più hard del solito. Ma non si tratta di una trovata né di una facile provocazione: le ragioni di questa scelta stanno nell’universale inattualità di Falstaff, capace di esprimersi in qualunque fase di transizione storica, tanto che più ci si avvicina al presente meglio è.

Così, mentre l’avida società di Windsor sta a comareggiare a bordo piscina, Falstaff viene lasciato invecchiare nel suo centro sociale-campiello dell’anima con murales in stile Mitte firmato da Margherita Palli. Dimenticato dall’Occidente intero, Falstaff tenta l’ultima impresa della sua carriera di libertino, per riaffermare una libertà sessuale da ribelle senza più cause, salvo venirne fagocitato quando alla fine, a furia di colpi e frustate BDSM, si accorgerà di non essere più all’altezza dei suoi desideri. Non sembra tanto una questione di vecchiaia, quanto di patetismo: l’amore costa sempre caro si diceva in Berlin Alexanderplatz, soprattutto quello per se stessi. Eppure proprio in questo autoinganno del vecchio John, in questa mancanza di consapevolezza di sé e dei propri comportamenti un po’ ridicoli, non può non riconoscersi una certa nobiltà.

La direzione di Daniel Barenboim punta all’omogeneità della frase musicale e mette in luce alcuni preziosi dettagli che, senza esagerare, nessun altro direttore oggi fa notare. Ma questo flusso sonoro ininterrotto non tiene conto dei salti, dei contrasti e delle asimmetrie di evidente valore teatrale della partitura, la cui misura viene messa in discussione anche per alcune scelte di tempi: ad esempio la fuga finale è tanto lenta da non lasciar intravvedere il disincanto e l’aggressività con cui l’opera si chiude. Ciononostante la morbidezza dell’orchestra ha una sensualità che non sarà teatrale ma non può lasciare indifferenti, tanto che restano impressi alcuni motivi ricorrenti dell’opera che Barenboim scolpisce senza neanche troppe tentazioni wagneriane, cosa che non si può dire invece per gli ottoni o il sigfridico corno nel terzo atto.

La rivelazione della serata è senz’altro Michael Volle, che deve solo sistemare un po’ la dizione per diventare uno dei migliori Falstaff in circolazione. Volle ha capito subito che Falstaff non deve far ridere, ma deve sempre cantare – non parlare – con un senso di avvilimento nella voce. E all’inizio del terzo atto, in vestaglia e mutande, Volle diventa il Falstaff abbandonato dal principe Hal dell’Enrico IV, traducendo alla perfezione in scena il pensiero di Martone, tanto che le sue lacrime amare, versate sull’immagine di un io che forse non è mai esistito, tolgono dal personaggio ogni residuo comico che ci sia capitato di vedere in passato. Di prim’ordine il resto del cast – Barbara Frittoli, Daniela Barcellona sublime in motocicletta, Alfredo Daza, Francesco Demuro, Katharina Kammerloher –, su cui spicca Nadine Sierra, Nannetta col diavolo in corpo.

© Gordon Welters

Allo Staatsoper Unter Den Linden di Berlino: Falstaff di Giuseppe Verdi. Direttore Daniel Barenboim, regia di Mario Martone, scenografia di Margherita Palli

Immagine di copertina: Daniela Barcellona (Mrs. Quickly), Michael Volle (Sir John Falstaff) / Credits: Matthias Baus