Quelle nuove consonanze ricercate da Morricone

In Musica

Non solo colonne sonore da Oscar. Ennio Morricone era un musicista “da cinema” che amava il Suono, coltivava la sorpresa, si lasciava attraversare dalla musica. Un compositore contemporaneo con l’attrezzatura dell’Avanguardia e il dono della Melodia

“Ma questo è il primo disco di Nuova Consonanza. Come fa ad averlo”.

“Beh, passione e ricerca”.

“E le piace?”.

“Come no?”.

Morricone mi guarda con occhi da contento lei e svolazza la firma sulla copertina. É il 14 luglio 2002. Luogo, Ravenna. Occasione, il debutto di Voci dal silenzio, pezzo per recitante, coro misto, voci su nastro e orchestra ispirato all’11 settembre, commissionato da Riccardo Muti per il Festival di quell’anno. 

Il vinile Rca, registrato nel 1966, si è trasformato in reperto storico il 6 luglio della scorsa settimana, quando Ennio Morricone se n’è andato senza cerimonie. 

Che cosa conteneva quell’album di cinquantaquattro anni fa e che cosa ancora trattiene, trecento colonne sonore, due Oscar, cinque Nomination, tre Grammy e quattro Golden dopo?  Un segreto d’importanza, direbbe Rossini: la matrice di un musicista da cinema che giocava con la materia, amava il Suono, coltivava la sorpresa, si lasciava attraversare dalle mille musiche che la realtà scrive senza umane partiture. 

E le regole del gioco, Ennio Morricone le aveva imparate o raffinate nel laboratorio che si chiamava Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, GINC, fondato nel 1964 da Franco Evangelisti, pianista non allineato e inquieto, tornato dai corsi di Darmstadt con un debole per il meno allineato fra i musicisti di quell’Avanguardia, John Cage.

Nuova Consonanza alzava la bandiera corsara dei “Compositori che   improvvisano”: tutti erano musicisti perfettamente attrezzati – Morricone e Bertoncini allievi di Petrassi a Santa Cecilia –, colti occidentali che non mancavano di rispetto verso i colleghi afroamericani e trasformavano in cosa fatta lo spirito dell’improvvisazione jazz nella sua espressione più alta: la composizione istantanea. 

Perfino la casa madre americana Rca Victor si accorse che quell’album di Nuova Consonanza presagiva esperienze in stile libero ancora poco decifrabili, e ne lanciò una ripubblicazione, nel ’67, che osava un titolo furbo: The Private Sea of Dreams. Tentazioni psichedeliche? Non indifferenti al mondo delle altre musiche, i coraggiosi di Nuova Consonanza cominciarono a provare combinazioni strumentali “arricchite” (chitarra elettrica, batteria), per poi tornare ad assetti più coltamente contemporanei, che erano già comunque fuori le righe, molto fuori le righe. 

Ennio Morricone non era tra coloro che rischiavano di restare a vita nella prigione in cui Battiato minacciava di chiudere un compositore d’avanguardia finché non avesse scritto un tema di successo: dal cielo gli era sceso il dono della melodia. Ma nessuna delle sue colonne sonore sarebbe così magica e sorprendente senza quella pratica forsennata che, nelle improvvisazioni scientificamente organizzate di Nuova Consonanza, scorticava suoni “altri” dalla tromba (lui), da sax, trombone, violoncello, percussioni, lamiere, legni e bottiglie, dal pianoforte tormentato con spazzole, scatole, ferri e robette che Evangelisti si portava da casa, il tutto “aggiustato” con spezie elettroniche. 

Di ogni stile e periodo della storia, Morricone aveva gli strumenti per dominare le forme, ma neppure si era negato la forza anche espressiva dell’Avanguardia e delle sue ramificazioni (Berio, Boulez, Stockhausen): ciò che esse hanno introdotto di estremo nella musica poteva ben essere utilizzato come territorio di confine, come momento di passaggio a una “nuova consonanza” capace di liberarsi della dissonanza “scientifica” per sbalzare contrasti insoliti con la tonalità.

Nuova Consonanza esiste ancora; una lunga storia di ricambi generazionali l’ha preservata. Fino al 1976, anno di Musica su schemi, quinto album del gruppo (etichetta Cramps, Nova Musicha n.9, con Evangelisti, Egisto Macchi, Antonello Neri, Giovanni Piazza e Giancarlo Schiaffini), Ennio Morricone ha tenuto un posto riservato, in tutti i sensi, in quel laboratorio laico del pensiero contemporaneo: dieci anni di sperimentazione militante. Dei suoi primi disincanti come “compositore istantaneo”, Morricone si è anche preso gioco – ne aveva lo spirito e il diritto -, ma a GINC è sempre stato vicino anche quando scriveva tutt’altro. E quando scriveva quel tutt’altro, trecento colonne sonore diceva lui, la materia pura di quelle sperimentazioni perforava le righe, dilatava lo forme, creava realtà.

Qualcuno ha detto che la musica è come la folla delle persone che incontriamo nella vita: dopo anni, nel luogo più lontano e sorprendente, riconosciamo un volto, un paio di occhi, una mano, un incedere che portiamo nelle pieghe della memoria. Volto, occhi, mani, incedere che non dovrebbero essere lì.  La musica di Ennio Morricone è fatta di questa plasticità: le sue colonne sonore sono riconoscimenti di sguardi, suoni, oggetti che rimbalzano sullo schermo del cinema, mezzo secolo di cinema, dal sapere di una Avanguardia molto speciale perché, fortunatamente, sfornita di lenti ideologiche. Schietta, pragmatica, anti-ideologica, impaziente e anche sfottente com’erano l’uomo e il musicista. Che non ha mai glorificato sé stesso ma nemmeno regalato niente a nessuno.  

Onestà e impegno, sempre.

L’11 settembre. “Era un martedì – ricordava Ennio Morricone -. Eravamo in studio e stavo lavorando con l’orchestra. Ci fermammo sbigottiti e quella cosa terribile entrò dalla televisione nella nostra musica facendola tacere”. Senza la commissione di Riccardo Muti avrebbe scritto lo stesso sulle Torri? “Sì, senza dubbio”. E sarebbe potuto nascere un pezzo diverso? “No, avrebbe avuto questa forma: grande orchestra, coro, voci di lontano su nastro magnetico che attraversano la tessitura, parole recitate…”. Di un poeta sudafricano, Richard Rive, che cantano l’eguaglianza e la tolleranza… “Perché volevo andare oltre quella tragedia: dall’11 settembre il brano si è trasformato in un canto delle infinite stragi dell’uomo, dal colonialismo a oggi”. Per questo il nastro fa entrare tante “voci del mondo”. “Di tutti i popoli, degli indiani d’America e d’Asia, di tuareg, cinesi, africani… affinché vincesse, alla fine, un sentimento di conciliazione e di pace”. Con un’autocitazione. “Da Mission, riferimento voluto alla strage del film: apre l’ultima parte del pezzo dopo il caos strumentale, per dare il senso di desolazione e di rassegnazione che segue il massacro”.

Leone? Come me, buono l’ultimo.

“Sergio era molto avaro nei dialoghi. Metteva in bocca poche parole. A volte non voleva che nemmeno parlassero…”. Tanto che, scherzando ma non troppo, diceva di aver scelto Clint Eastwood perché aveva due espressioni: con e senza cappello. “Ah sì? Questa non la sapevo. Del resto, Leone voleva così: anche lui lavorava sulla temporalità, sulle pause, sui silenzi, come un compositore. Pensi al finale di C’era una volta il West… Apriva quei silenzi alla musica, li preparava apposta. E amava anche i rumori, i suoni extramusicali, come me”. (Nuova Consonanza, ndr).  E dei film di Leone quale metteva Morricone in cima al suo orgoglio e ai suoi ricordi? “L’ultimo, C’era una volta in America, e gli altri, a ritroso, a scalare… Sono convinto che Leone ed io abbiamo percorso insieme una curva ascendente: il meglio l’abbiamo dato alla fine”.

Le balle di Gillo.

A proposito di Queimada, Gillo Pontecorvo raccontava una storia – citata nel libro Anni fuggenti di Silvio Danese -: diceva di aver girato le scene facendo suonare il kirie della Missa Luba. Poi arriva Ennio con la sua musica e funziona anche meglio. “Pontecorvo è un amico fraterno – correggeva Morricone -, ma racconta storie. La verità è che io avevo composto le musiche per i Cannibali della Cavani. Si stava al montaggio e lui andò in moviola e rubò un pezzo di nastro. Poi me lo fece sentire sotto il finale di Queimada e mi disse: scrivimi una cosa simile.  La Cavani s’inc… Quante gliene abbiamo dette. Poi gliela scrissi, la musica. Ma lui continua a raccontare quella storia”.

Ventenni e teste bianche.

Nel concerto per il suo settantacinquesimo compleanno, alla Royal Albert Hall di Londra (2003, 5.000 persone), la cosa più sorprendente era la coda per gli autografi: tutte le generazioni col foglietto in mano. “C’erano teste bianche, ma anche un esercito di ventenni. Concerti come quello ti fanno fare i conti con la vita. E quando vedi che vengono ad ascoltarti anche i giovani e i giovanissimi, capisci che forse non è inutile quello che hai fatto, che sei riuscito a parlare a diverse generazioni… Peccato che poi tagliarono la coda perché durava da tre quarti d’ora. Non mi piacque”.

Musica da film. Si può insegnare?

“Nei conservatori c’è una giusta preoccupazione, un giustificato sospetto verso chi lavora per il cinema. La musica da film è al servizio di un’altra arte, non è assoluta. E questo è visto con sospetto. Lo capisco perché anch’io, scrivendo anche musica senza destinazioni, pura, percepisco questo valore assoluto. Ma agli studenti dico che in tutti i secoli la musica è stata al servizio di qualcos’altro… La musica sacra è stata al servizio della liturgia. Di Tafelmusik, per rallegrare i banchetti, ne è stata scritta una montagna… I Reali fuochi d’artificio di Handel, li ascoltiamo anche senza cerimonie: non abbiamo bisogno di fuochi per capirla. Tante musiche dedicate ad altre arti o funzioni le riascoltiamo senza discriminazioni. Così dev’essere anche per quella da cinema”. Ma si può insegnarla? “Si può insegnare il percorso operativo: il lavoro col regista, i comportamenti in moviola, l’uso del cronometro. Lezioni su tutto questo possono essere utili. Il resto è nella preparazione e nel talento del compositore”.

Capitolo Oscar.

Come membro della Academy, Morricone partecipava ogni anno con la sua brava scheda alle nomination per l’Oscar. Ma di ben 60 film vincitori di premi, con musiche di Morricone, nessuno ha avuto riconoscimenti per la colonna sonora. Bisogna aspettare l’Oscar alla carriera del 2007 e quello per The Hateful Eight di Tarantino nel 2016. E dei colleghi più fortunati, che pensava Morricone? “Hans Zimmer è uno che scrive buona musica. Ma nel Gladiatore c’era anche una canzone di un certo effetto, scritta da una donna, Jocelyn Puck… Non male. La incontrai a Los Angeles, quando giravamo Malena, e le feci un po’ di osservazioni… perché anche in una canzone si vede se uno sa scrivere o no, se uno è un dilettante… Beh, se l’è presa molto”.

Che cosa è indigeribile in un compositore da film?

“Che non orchestri lui le sue musiche. Quando vedo nei titoli di coda: musica di e orchestrazione di un altro, non m’interessa. Spesso è un trucco per contrabbandare cose di basso livello. E, insomma, anche in questo mestiere sarebbe ora di studiare, di faticare, di attrezzarsi“. 

Ennio Morricone, musicista contemporaneo con l’attrezzatura dell’Avanguardia e il dono della Melodia.


Immagine di copertina © http://www.enniomorricone.org