Elezioni americane: dopo Dallas, le risposte inevase

In diarioCult, Weekend

Mentre in Europa guardiamo a Nizza con l’angoscia che si rinnova, l’America che, tra poco dovrà scegliere chi la guiderà, fa i conti, ancora una volta, con la questione afroamericana e con la sua polizia. Ma, dice il sociologo Alex Vitale, la sola categoria del razzismo tra le forze dell’ordine non spiega abbastanza

Quando abitavamo a Brooklyn, avevo ‘solo’ due figli: Luca, disabile grave, richiedeva anche allora un’enorme mole di energie sia emotive che fisiche, e quelle che mi rimanevano le dedicavo a Sofia, che era piccolina. Il pochissimo tempo che mi rimaneva dovevo usarlo per fare qualcosa per me, giusto per non diventare pazza. Avrei potuto andare a fare delle grandi manicure tutte le settimane, ma invece optai per una laurea in sociologia al vicino Brooklyn College. Furono anni intensi, ma straordinari. Quasi tutti i docenti avevano più o meno la mia età, e con qualcuno riuscii anche a instaurare un rapporto di amicizia. Un docente in particolare, Alex Vitale, è rimasto un importante aggancio a quelle sere passate a lezione nelle aule vecchie e trasandate dell’università.

Alex Vitale insegna criminologia, legge e teorie sociali al Brooklyn College, e da 25 anni lavora con diversi distretti di polizia in tutto il mondo, dove sviluppa strategie per ridurre la possibilità di conflitto tra forze dell’ordine e cittadini, sia durante disordini collettivi (manifestazioni o anche rivolte) che durante disordini minori sul territorio (disordini dovuti a persone con malattie mentali, per esempio, o senzatetto). Sta lavorando al suo secondo libro sulla polizia che uscirà in aprile (Verso Books Publishing), ma scrive su diverse riviste accademiche, su molte testate e spesso viene interpellato da televisione e radio per analizzare comportamenti violenti o coercitivi della polizia. Insomma, è una persona che si dà molto da fare per cercare di rendere questo un Paese più equo e meno violento.

Ieri l’ho chiamato per chiedere la sua opinione sul pandemonio che sta succedendo in America in questi giorni.

Parliamo prima di tutto di polizia: sono curiosa di sapere se quando spiega ai poliziotti come fare meglio il loro lavoro, la prendono bene. Rispetto agli Stati Uniti, la polizia in altri Paesi sembra essere più aperta all’idea di evitare il conflitto e di instaurare un rapporto più alla pari con i cittadini: «All’estero molti leader delle forze dell’ordine capiscono che per essere efficienti devono guadagnarsi un alto livello di legittimità pubblica e sono aperti a trovare strategie per limitare conflitti. Qui, invece, molti dipartimenti di polizia credono che la soluzione ai disordini sia mostrare il loro potere coercitivo e aggressivo. In generale, negli Stati Uniti si pensa che per risolvere i gravi problemi sociali di povertà e divisioni razziali è necessario usare la forza».

Le notizie degli ultimi omicidi di due uomini neri da parte della polizia e di cinque agenti durante una manifestazione sono fortemente legati ai conflitti razziali presenti negli Stati Uniti, e per molti europei (ma non solo) è l’ennesima conferma che la polizia statunitense sia profondamente razzista e che ormai da anni stia portando avanti una guerra violenta e sanguinosa con le comunità nere e sudamericane. Secondo Alex Vitale, pensare che il comportamento violento degli agenti sia solo guidato da razzismo è vero solo in parte. Ci sono altri fattori altrettanto importanti che portano a questo tipo di reazioni omicide. Ammette che molti agenti hanno pregiudizi razziali e spesso appoggiano una politica di “white supremacy”, ma è anche vero che nei distretti di polizia americani gli agenti neri sono sempre di più. «Sono tanti i poliziotti neri, qui negli Stati Uniti. Il vero problema è che ci si aspetta che le forze dell’ordine risolvano i problemi sociali di questo Paese con l’unico strumento che hanno, e cioè l’uso della forza. Ma il problema della violenza della polizia nei confronti dei cittadini non può essere risolto soltanto eliminando il razzismo tra gli agenti, ma risolvendo i problemi sociali al di fuori della polizia: segregazione, diminuzione delle retribuzioni, istruzione, disoccupazione… Non possiamo aspettarci che questi problemi strutturali vengano risolti dalla polizia».

Mentre parlava, ho pensato a come sarebbe importante seguire ancora le sue lezioni, studiare con lui e con altri suoi colleghi. Ho anche pensato a come sia importante imparare ad analizzare certe dinamiche e a lasciare da parte generalizzazioni e conclusioni affrettate, fatte senza conoscere davvero i motivi che si nascondono nelle pieghe di certe realtà. Spesso quando studiavo teorie sociologiche, mi ritrovavo a pensare che le conclusioni fossero quasi ovvie, come quasi ovvio mi sembra il concetto che il professor Vitale spiega, e cioè che se si affrontassero i problemi sociali che portano al degrado e alla violenza in alcune comunità, ci sarebbe meno tensione, ci sarebbero meno morti. Eppure arriviamo sempre a conclusioni solo parzialmente vere, forse per pigrizia mentale o forse perché sono quelle che ci esulano dalle nostre responsabilità sociali, anche indirettamente. La società potrebbe funzionare così bene se solo ci fossero duemila Alex Vitale in giro per il mondo a ricordarci che anche noi abbiamo il dovere di migliorarla. Troppo comodo dire che i poliziotti sono violenti e razzisti. E noi, invece, cosa facciamo per cambiare veramente le cose?

«Certo», gli dico a proposito di quello che è successo a Dallas e cercando questa volta di essere un po’ al suo livello, «che dopo tutta questa violenza che i neri subiscono da anni dalla polizia, prima o poi scatta la rabbia e succede che ci lasciano la pelle anche gli agenti». Ma appena finisco la frase capisco di esserci ricascata: ecco un altro commento cliché, quello che piace tanto ai populisti, quello che mi esonera dalle mie responsabilità. Non ho pensato a un problema sociale enorme, che tra l’altro vivo quotidianamente con mio figlio, e cioè alla difficoltà per le persone che hanno problemi mentali e psichiatrici di ottenere servizi medici adeguati. «Non credo che si possa spiegare la violenza estrema a Dallas relazionandola ai problemi sociali del Paese. Le azioni di una persona profondamente disturbata si possono spiegare parlando forse di malattia mentale. L’ultimo ha ammazzato dei poliziotti, ma qualche settimana prima un altro aveva sparato a persone gay a Orlando, e prima ancora in una scuola di bambini. Il problema è la mancanza di trattamenti medici adeguati per le persone con malattie mentali e il facile accesso alle armi».

La butto sulla politica: come affronteranno questi eventi Hilary Clinton e Donald Trump? «Mi aspetto da Clinton molta retorica liberale: vorrà dare un segnale alla polizia che è una loro sostenitrice accanita, e dirà agli afroamericani che condivide il loro dolore. Il problema della sua campagna elettorale è che, a differenza di Bernie Sanders, non ha ancora fatto nessuna proposta per affrontare i problemi strutturali della polizia e della questione razziale…Trump invece raddoppierà la sua retorica di white supremacy e difenderà pubblicamente la polizia, che ritiene essere la linea che divide la civiltà dal caos».

Fortunatamente, almeno questa volta, ha detto quello che forse avrei detto anch’io. Ci salutiamo, ripromettendoci di vederci presto, magari davanti a una bottiglia di vino.

Immagine di copertina di Ella

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