Elezioni americane: il giorno di Emma

In diarioCult, Weekend

Anche i piccoli fanno campagna elettorale: metti una ragazzina di 9 anni, quasi dieci!, a bussare alle porte cercando convincere chi apre a votare e a votare per Hillary. Scoprendo cose non immaginate sugli elettori di Trump e felice di avere fatto anche lei la propria parte

Domenica mattina Emma si è svegliata all’alba e si è intrufolata nel lettone. «Mamma dormi?», mi chiede, svegliandomi. Era agitata perché finalmente era arrivato il gran giorno, quando lei e Dan sarebbero andati nel vicino stato del New Hampshire a fare campagna elettorale per Hillary Clinton.

Dan aveva contattato mesi prima il comitato per la campagna della nostra zona, e a fatica era riuscito a organizzare il tutto. Si sarebbero incontrati a Porter square, a due fermate di metropolitana da casa, verso le 10:30. Avrebbero incontrato la solita troupe di Rai 3 di La Casa Bianca, senza la quale ormai non si muovono più, gli organizzatori e una trentina di altri volontari. Grazie a una conferenza di pedagogia a cui il simpaticissimo cugino di San Francisco Steven doveva partecipare, è stato anche lui trascinato in questa strana avventura.

Dopo aver fatto una colazione veloce, Emma si è messa la sua maglietta con la scritta FUTURE PRESIDENT, la spilletta di Rosie the Riveter, con la donna che mostra il muscolo e la scritta WE CAN DO IT, simbolo femminista dei primi anni sessanta, le scarpe comode e una giacca, ché c’era un vento freddo che entrava da tutti gli spifferi.

Dan mi aveva confessato di essere un po’ preoccupato, perché i fans di Trump sono generalmente violenti e poco inclini alla comunicazione verbale senza insulti, e non voleva che a Emma ne capitasse davanti uno che la spaventasse. Sarebbe davvero il colmo, gli ho detto, se qualcuno si arrabbiasse con una bambina di nove anni. «They are crazy», ha risposto Dan perplesso. Steven invece, per sdrammatizzare, ha annunciato: «Accidenti, mi sono dimenticato la mia maglietta pro-Trump a San Francisco! Avrei fatto un figurone a presentarmici al comitato della Clinton». Emma, che in queste cose non scherza, l’ha guardato storto e gli ha detto: «Ma tu davvero voti per…» Ma poi una risata grassa di Steven le ha risposto in modo convincente.

Sono arrivati a Porter square, dove è stata indetta una riunione per spiegare le regole: non si va a bussare alle persone che hanno un poster di Trump fuori da casa loro, perché tanto quelli non li convinciamo. Si bussa e poi si fa qualche passo indietro, per non sembrare troppo invadenti. Si saluta con gentilezza, e si spiega che l’8 novembre si deve votare, possibilmente per Hillary. Se qualcuno vuole litigare, non si attacca bottone, ma si ringrazia e si girano i tacchi.

È stata data a ogni gruppetto una cartina e l’itinerario da seguire. A Dan e al resto della truppa è stata assegnata una zona molto residenziale, con case immacolate e giardini molto ben curati. Emma era agitata, ma contenta.

Toc toc, tre passi indietro, attesa. La porta si apre. «Good morning, my name is Emma, and I wanted to remind you to vote for Hillary Clinton this coming elections. I believe she is the best candidate and that she will make a great president!».  Spesso le persone alla porta erano in vestaglia, con una tazza di caffé fra le mani. Aprivano la porta e si trovavano: una bambina di nove anni (“quasi dieci!”, come mi dice sempre lei) vestita da fricchettona, il suo papà, con la giacca di pelle nera, un cugino californiano, una telecamera e una giornalista. Considerato tutto questo, la maggior parte delle persone sono state estremamente gentili, mi diceva Dan, e hanno accolto il consiglio di Emma con affetto e sincerità. In queste cose, bisogna dirlo, gli americani sono davvero il massimo: sempre educati, sempre sorridenti, la cultura del it’s ok sempre e comunque.

Toc toc, tre passi indietro, attesa. Apre un energumeno, un po’ inquietante e Emma dice la sua frasina. «Ma neanche per idea! Hillary fa parte della macchina demoniaca di questo Paese! Ma come si fa a votare per lei?». Dan si avvicina e comincia a attaccar bottone, infrangendo la regola. Emma si fa da parte. L’uomo spiega a Dan di essere socialista, ma non come Bernie Sanders, anche lui parte del sistema. Lui aspetta la rivoluzione, aspetta di vedere un’America giusta per tutti e non solo per l’establishement. Dan si appassiona e cominciano a parlare di libri letti (gli stessi), di sogni (gli stessi) e di come raggiungerli (in quello, forse un po’ diversi). Si salutano stringendosi la mano.

Toc toc, tre passi indietro, attesa. Apre una signora in vestaglia molto gentile che dice no grazie, ma lei voterà per Trump. Chiama il marito, che si mette anche lui a parlare di politica. Questa volta è Steven a chiacchierare e a cercare di capire il perché. Parlano per una ventina di minuti, e poi si salutano, sempre molto cordialmente.

In macchina Emma è stupita: non aveva idea che le persone che votano per Trump fossero normali, addirittura gentili. Sembra smarrita, per una volta senza parole.

Arrivano a casa che è sera, sono tutti e tre stravolti. Emma si trascina un poster che dice HILLARY CLINTON TIM KANE e chiede subito di metterlo fuori dalla porta. Poi mi racconta di come non sia vero che chi vota Trump ha tre teste e la voce da orco.

Va a letto presto e contenta, la mia piccola Emma. Sono felice che abbia fatto un’esperienza così piccola, ma anche così importante. Se vince, Hillary sarà proprio la sua presidentessa, e anzi mi ha già detto che vuole scriverle una lettera per dirle che anche lei ha lavorato per la sua vittoria.

Il suo entusiasmo e la sua generosità mi fanno una tenerezza immensa.

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