“Siamo tutti il centro del nostro mondo, ma anche satelliti del mondo di qualcun altro” dice Edoardo Albinati, che firma il terzo movimento della sua trilogia umana pubblicato da Rizzoli. Un romanzo di romanzi, concepito per germinazione, come un arazzo di tutte le storie possibili (o, almeno, di una poderosa gran parte): uno specchio nel quale ciascuno di noi finisce sempre per ritrovare la propria immagine riflessa. Le relazioni umane, le debolezze, i sogni, gli impeti improvvisi, gli amori, le lotte di un tempo e di un Paese sono la materia viva di questo libro-mondo.
Scritto a mano su quaderno, con pazientissima e manuelina trascrizione, potrebbe essere il romanzo che segna, per Albinati, la chiusura di un cerchio – così racconta il suo autore nella presentazione al Salone del Libro di Torino.
I segreti sono l’unica cosa per cui vale la pena vivere distillava, in apertura di bandella, il romanzo con cui, nel 2020, Edoardo Albinati tornava a stretto giro dentro la vita dei Cuori fanatici, protagonisti del suo libro precedente: Nanni e Nico, attorniati da una piccola folla di altri personaggi destinati a comporre, per gemmazione, la trama corale di un percorso di lunga gittata.
Desideri deviati ampliava così, dopo l’affaccio di quel rapporto di amicizia tra opposti, lo spettro delle loro relazioni. Intorno alla diade in reciproca, continua ricerca e attrazione (Nanni e Nico sono forse alter ego della medesima personalità?), il romanzo della “città del Nord” si concentrava sui tic, sulle fantasticherie, sulle aberrazioni, sulle libertà coltivate all’ombra del mondo editoriale: una terra di mezzo tra la cultura e l’industria, perennemente contraddittoria, spesso feroce, a volte casualmente benevola con i suoi attori.
Alcuni dei temi che già emergevano (il ruolo dell’intellettuale, la distanza tra aspirazioni ideali e bassezze quotidiane, la dedizione al lavoro letterario) tornano ora nelle pagine de I figli dell’istante, nuovo romanzo di Edoardo Albinati, sempre pubblicato da Rizzoli.

Si compie così il trittico dedicato nel sottotitolo a “Amore e ragione” – non casualmente in questo preciso ordine: la sensualità che pervade ognuna delle vite raccontate finisce sempre, infatti, per dover fare i conti con il perimetro tracciato dal buonsenso, dalle convenzioni, dalle inibizioni, dai deliberati atti di auto-sabotaggio interiore di ciascuno dei suoi personaggi.
Come in Desideri deviati il Preludio alla città del Nord aveva il compito (quasi musicale) di configurare l’armatura in chiave del successivo sviluppo delle storie narrate, dichiarandone la precisa tonalità (le giornate smorte, le improvvise vampate di felicità pura), così in I figli dell’istante quel preludio si amplia, si espande, apre lo sguardo dalla città-stato al paese intero: dentro l’Elegia dello Stivale ci sono tutti i bemolli e i diesis, le acciaccature e i respiri, le intenzioni sonore, gli allegri e i pianissimo di un luogo, un popolo, una nazione, una certa precipua inclinazione comune dello sguardo:
“Lo Stivale non può fare a meno dei sacrifici per credere, anche alle favole – cioè i racconti più sanguinari di tutti. La crudeltà qui viene quasi sempre stemperata da una certa bonomia, e persino gli assassini compiono atti di buoncuore, specie in seno alla loro famiglia – insomma, nessuno è tutto d’un pezzo, nessuno è un monolite malvagio, l’umanità dello Stivale la si ritrova persino nella disumanità, e proprio per questo l’umanità risulta la più sospetta delle giustificazioni, o delle attenuanti, subito prima dell’intelligenza e della simpatia. Sì, perché, se sei simpatico, da noi, ti si perdona tutto. Un uomo sveglio ha più probabilità qui che altrove di diventare un delinquente, qui dove si apprezza ogni lavoro ben fatto, qualsiasi azione bene eseguita (…) Quel che conta è il risultato, e lo si ottiene, se non con la virtù con l’abilità, se non con l’astuzia con la forza, e se non con la forza con il fascino, che è una forza anch’esso, seppur immateriale, o altrimenti con la bellezza, argomento capace di mettere al tappeto tutti gli altri e vanificare ogni obiezione”
Tutto il romanzo si può leggere (anche) come una incandescente confessione d’amore nei confronti dell’Italia – anzi: dello Stivale – tanto che, terminata la lettura, viene spontaneo concedersi un “a capo” per ritornare in quella ventina di pagine iniziali nelle quali tutti i temi portanti sono enunciati con vigore, come in una sinfonia che preceda lo sviluppo di un’opera, ma che potrebbero benissimo esserne il suggello finale. Esattamente come nel precedente romanzo, infatti, l’incipit è subito alto, e denso: intenso di ragionamenti e programmatico.
Tuttavia, pur riproponendone l’impianto, I figli dell’istante non è un sequel di Desideri deviati, con cui condivide la selva dei personaggi, ma un vero e proprio secondo movimento: dove si compiono, in levare, le traiettorie multiple dei destini e delle scelte individuali.
Lo sguardo di Albinati si fa, se possibile, ancora più acuto nel disvelamento delle magagne e delle vergogne dei singoli, ma al contempo il suo occhio non dimentica mai di essere pietoso: poiché, di fatto, questo appartiene a quel genere di romanzi che sono libri-mondo, ovvero quelli in cui il mondo intero presta le sue tessere per farsi rappresentazione.
“Non ci sono mai discorsi troppo alti o troppo bassi per nessuno, quando vi è disposizione all’ascolto. E guai a chi pecca di arroganza banalizzando le proprie parole poiché suppone che l’uditorio non abbia sufficienti qualità per comprenderle!”
Un insegnante di lettere, un ragazzo chiamato alla leva, una bambina che capisce troppo, una donna in guerra con il padre, un uomo che si innamora alla perdizione, una modella bellissima, un incauto escursionista, una ragazza alla pari… : ognuno di noi è stato, è, sarà – almeno una volta nella vita – uno dei personaggi portati in pagina da Edoardo Albinati.
Di ognuno ci sono noti l’angoscia, lo smarrimento, la vacuità, l’inanità, il coraggio improvvido, la spavalderia, il senso di essere fuori posto perché, come in ogni libro-mondo che si rispetti, quello che Albinati fa – con la consueta, sottile, stregonesca maestria affabulatoria – è trasformare i suoi lettori e le sue lettrici, nel profondo delle loro teste, in attori alle prese con il riflesso di quello che ciascuno ha sperimentato nella propria vita: il desiderio, la felicità, la perdita, la libertà, la solitudine, il male, la bellezza.
Marianna incontra l’amore (e quindi la vita) in un luogo ultimo, e insieme a lei occorre chiedersi di nuovo cosa si era capito della parola cura.
Enobarbo rivela la disperazione di un cervello intelligente quando è costretto a farsi mestierante per continuare a stare nei dintorni del mondo che desidera, e che non lo riconosce.
Lenia, al capezzale del padre, fa i conti con il vuoto del loro legame, e con la mancanza di riconoscimento.
Nanni si confronta con il senso profondo del mestiere dell’insegnante di Lettere (filtro, estrattore, carburatore, ventola del desiderio).
Maria si sente incagliata in una età che non le corrisponde e nell’assedio di rapporti cui percepisce di non appartenere.
Lauretta desidera desiderare (strenuamente), Caterina conserva il proprio mistero, Costanza decide di andarsene.
E, nel frattempo, Nico si trova incastrato negli obblighi per niente epici del servizio di leva – l’esproprio del tempo, l’inazione, l’ingiustificata tensione nervosa, la distanza, la ripetizione comandata, l’assurdità; Ruggero, improvvidamente, tasta con mano come in montagna non ci sia da scherzare neanche con il più banale dei percorsi; la madre della piccola Beatrice Lunardon ha una sua idea impermeabile e agguerrita idea di fede; il Coboldo si perde nell’innamoramento.
Ci sono i non detti (e i non scritti) della famiglia, c’è l’idea che la libertà di oggi possa, pur nella sua fragilità, risultare una frontiera difficilmente raggiungibile da chi verrà domani; e ci sono, con estremo coraggio, desideri che parlano di bellezza, di gioia – addirittura, di felicità.
La tragedia e la fiaba, il dialogo quasi cinematografico e la riscrittura del mito, il realismo e il mistero dell’irrazionale, l’allegoria dantesca e il pezzo di suspense: Edoardo Albinati si concede di passeggiare dentro la partitura che ha messo in opera aprendo le porte di storie intime e di emozioni universali. Nel frattempo le quinte si aprono su Milano, su Roma, sulla provincia profonda, sul paesaggio sfregiato, sulla montagna lunatica, sull’imperscrutabile sempre del mare.
Il risultato è una vertigine, che parla a ciascuno di cosa è. Del resto:
“Gli artisti non evadono, non evadono mai, nemmeno mentre stanno sognando nel loro letto. Sono immersi in questo mondo, non lo sfuggono, ma lo rendono visibile. Cioè, lo mostrano, lo additano. (…) Gli artisti inventano la realtà che già c’è, non un’altra”.
(Un articolo su La scuola cattolica, il libro che ha portato Edoardo Albinati al Premio Strega si trova qui).