“Due sotto il burqa” della franco-iraniana Sou Abadi è una commedia che si prende gioco con gentilezza dell’oscurantismo familiare islamico in trasferta a Parigi. Ma anche dei velleitari oppositori di sinistra fuggiti dall’Iran 40 anni fa, della gioventù musulmana che riesce a socializzare solo nella moschea, e di una religione che si chiude nel rifiuto della cultura degli altri. Finendo però beffata
Già il titolo originale, Cherchez la Femme, non è mostruosamente originale, anche se attinente alla trama. Ancor meno brilla l’italiano Due sotto il Burqa (fra l’altro il burqa è una copertura integrale, mentre nel film si vede il niqab), anche un po’ fastidiosamente ambiguo, soprattutto per una commedia, come quella firmata da Sou Abadi, iraniana 49enne che ha lasciato a 15 anni Teheran e la famiglia per vivere a Parigi, montatrice e regista qui al debutto nella fiction 15 anni dopo aver firmato il primo documentario (Sos Teheran), che tutto è fuorchè ammiccante.
La commedia di cultura cinematografica francese, e questa lo è in tutto e per tutto, ha acquisito un suo standard di qualità medio (qualche volta medio alto) e di solito sfugge alla volgarità dei cinepanettoni italici, anche se non sempre si mostra davvero dirompente sul piano comico. Ma soprattutto sa affrontare, spesso meglio di noi (salve casi rari, tipo il primo Smetto quando voglio o Tutto quello che vuoi) temi forti dell’attualità. Qui ci dimostra che si può ridere dell’estremismo islamico e della sottomissione delle donne nelle famiglie di cultura musulmana, senza cadere nel qualunquismo più o meno razzista o all’opposto nell’immobilismo politically correct.
I parigini Armand (Felix Moati, 28 anni e già due Cesar all’attivo come miglior attore esordiente) e Leila (Camélia Jordana) studiano Scienze Politiche, si amano e progettano uno stage a New York alle Nazioni Unite. I genitori di lui (Anne Alvaro e Predrag Monojlovic) sono iraniani e libertari di estrema sinistra e hanno lasciato la patria dopo l’avvento di Khomeini. Lei invece si vede piombare in casa il fratello Mahmoud (William Lebghill), reduce dallo Yemen dove ha aderito al radicalismo islamico, tornandone indottrinato. Così una delle sue prime imposizioni è il divieto alla sorella di incontrare Armand: il quale, però, trova un rimedio astuto e blasfemo, indossa il niqab che lascia scoperti solo gli occhi e si presenta a casa di Leila come Sheherazade, fanciulla così timorata di Dio da attirare l’attenzione amorosa di Mahmoud.
Questo complica e cambia le cose, perché Armand/Sheherazade è costretto, per reggere il gioco, a documentarsi in materia, e da lì passa a una sorta di sottile de-islamizzazione di lui, ragazzo che vede solo la moschea e i suoi amici oscurantisti, però anche impegnati nel volontariato pro-immigrati, come occasioni per poter socializzare in Francia: citando con disinvoltura Maometto e Victor Hugo, Abadi scatena una vera commedia degli equivoci islamo-slapstick, che in Francia ha avuto molto successo incassando blande scomuniche iniziali ma nessuna richiesta di censura.
Il tutto è sostenuto dal gioco del travestimento, qui a fin di bene, in tutte le varianti farsesche, tenute comunque sempre sotto controllo: ma con un nervo scoperto in primo piano, perché il niqab, che per Armand funziona da camuffamento amoroso, nel 2010 è stato bandito in Francia per legge. «Non credo di esser stata particolarmente coraggiosa», ha sdrammatizzato la regista, «non attacco la religione, l’ironia colpisce solo l’integralismo. Del resto tutto ciò che ha fatto progredire l’umanità ha inevitabilmente ferito qualcuno. Se ci facciamo paralizzare dalla prudenza non riusciremo a dire ciò che ci sta davvero a cuore, e io non ho certo lasciato il mio paese per starmene zitta».
A Sou Abadi interessa l’umorismo purché sia di testa. Leila e Armand provengono da mondi che vengono messi alla berlina, anche nel film, ma hanno saputo guardare oltre e ci chiedono di ridere con loro perché questo potrà aiutare tutti a distinguere. «L’idea di questo racconto nasce dal mio passato. In Iran ho vissuto la nascita della Repubblica Islamica, la trasformazione della religione in una legge spietata che pretendeva di stabilire le regole della nostra vita quotidiana, individuale, privata. Me ne sono andata per vivere in una società lontana da tali forme di violenza, ma anni dopo gli stessi temi si sono riproposti in Francia». In Due sotto il burqa, il poster di La dolce vita, strappato dal furioso Mahmoud, diventa un simbolo di libertà negata, e Leila intona Bella ciao per rivendicarla. «Il film di Fellini è sempre stato per me un’allegoria della libertà, assai audace e impertinente per l’epoca, tanto che la sua diffusione fu proibita in molti paesi».
E non è questo l’unico riferimento cinefilo. «Mentre realizzavo Cherchez la femme ho ripensato a un film che amo molto, A qualcuno piace caldo di Billy Wilder. Dopo aver lavorato come documentarista oggi sento che la commedia è la mia forma di espressione. Ho avuto persone della mia famiglia imprigionate e torturate, amici uccisi sotto il regime sciita iraniano. E in Francia gli attentati terroristici, il ritorno della violenza religiosa, suscitano ovvi sentimenti di paura, inquietudine, tensione. Io, però, di tutto questo volevo ridere in modo intelligente». Questo Armand, ispirato dall’amore per Leila, che diventa un po’ Cyrano e sotto mentito niqab (come Sheherazade) “educa” alla vita e ai rapporti umani Mahmoud è foriero di situazioni comiche, e quando l’irato integralista cerca di sfondare con un’ascia la porta della camera della sorella “infedele” per scoprire i suoi segreti, il riferimento al Jack Nicholson del kubrickiano Shining è così palese da diventare un’altra occasione di ilarità.
Due sotto il Burqa, di Sou Abadi, con Félix Moati, Camélia Jordana, William Lebghill, Anne Alvaro, Carl Malapa, Predrag Manojlovic