Wagner o la microfisica della partitura

In Musica

È l’oggetto della ricerca musicale di Daniele Gatti nel “Maestri Cantori di Norimberga” in scena alla Scala fino al 5 aprile. Un’opera metamusicale, un trattato di estetica, ma scritto con freschezza e serenità

Col tramonto del Walhalla, anche Wagner è scomparso dai cartelloni della Scala. Era il 2013, sul podio Daniel Barenboim per l’ultima giornata wagneriana milanese di questi anni. Di certo sontuosa, con il re bemolle maggiore finale della redenzione, atteso per tutto un Ring da sedici ore, intervalli esclusi. Finalmente, quattro stagioni dopo e un semitono prima, Daniele Gatti riporta Wagner alla Scala, stavolta in do maggiore, quello dei Mesitersinger von Nürnberg, tre atti di festa da non perdere per nessun motivo, dato che potrebbero passare altri ventisette anni per risentirla – l’ultima volta l’ha diretta Sawallisch nel ‘90.

Forse il titolo più sorprendente del compositore «dell’avvenire» – non quanto a durata: alla Scala cinque ore e mezza -, che qui risale la storia della musica e la ripensa con sguardo a quei Maestri Cantori del Rinascimento protestante, riuniti in corporazioni per stabilire le forme dell’arte. Ecco quindi un’opera nell’opera e sull’opera: metamusicale bisognerebbe dire, con in scena ragioni e premesse di quegli stessi Lieder cantati dai personaggi, il tutto di fronte a una giuria ostile a qualsiasi cambiamento.

Ma il cambiamento si insinua fin dalla prima scena: è il poeta Walther von Stolzing, rivoluzionario e nobile tra borghesi reazionari, insensibile alle forme e interessato solo allo slancio delle sue intuizioni. Sarà Hans Sachs, maestro e ciabattino, in pratica alter-ego di Wagner, ad allestire un compromesso tra regola e natura, tra apollineo e dionisiaco, decretando così la vittoria del nuovo, ma di un nuovo addomesticato dalla «sacra arte tedesca». L’opera è quindi un trattato di estetica con cantanti e orchestra, scritto con imprevedibile freschezza e serenità: trama complicata ma esile, scusa per una riflessione dell’artista sul suo lavoro.

Ovviamente Wagner non tenta di darsi ragione da solo. Anzi, i momenti più intensi della partitura sono quelli in cui Sachs esita, come nella struggente e straussiana aria dei lillà, piena di pensieri paradossali su un canto antico che è anche nuovo, un canto indimenticabile che non si riesce a ricordare. Siamo lontani dalle instabilità di Tristano e Parsifal, dal cupio dissolvi gridato attraverso atti conturbanti. Eppure anche in questa gioiosa rievocazione niente è risolto e forse nemmeno risolvibile: ogni linearità è solo apparente e artificiale.

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Daniele Gatti, dopo uno splendido Tristano quasi cameristico sentito all’Opera di Roma, si conferma uno dei più importanti direttori wagneriani di oggi. Non per la pienezza di suono, per l’urgenza di sintesi che potrebbe avere ad esempio Barenboim, il quale dirige puntando verso un tutto un po’ annebbiante. Gatti ricerca piuttosto la microfisica della partitura: quei dettagli che di volta in volta rimandano all’unità dell’opera come tanti frattali.

La sua direzione può forse far intuire quanto in Wagner forma e contenuto si rispecchino di continuo, quanto ogni significante possa diventare significato e viceversa. Un compositore spesso messo a confronto con Schopenhauer, ma che qui sembra sempre più hegeliano: per lo sforzo di costruire un linguaggio dialettico, capace a poco a poco di includere in sé l’assoluto con movimenti interni e locali.

Nonostante queste giuste premesse e promesse, quasi sempre mantenute, Gatti a volte cede alle tentazioni maestose dell’opera, specie nelle scene d’insieme, come la sfilata finale delle corporazioni. Ma nel preludio del terzo atto, Gatti sa condurre la melodia con una malinconia pensosa che sembra uscita dalla descrizione che ne dà Thomas Mann nel Doctor Faustus: «la melodia sonora si avanza fin nei pressi di un culmine che essa evita per il momento, in conformità alla legge dell’economia, e lo scansa, lo mette da parte, lo tiene in serbo, ed è bella anche così». Aggiungerei che è bella proprio per questo.

Di grande effetto l’allestimento di Harry Kupfer, che immagina una Norimberga in ricostruzione dopo i bombardamenti – le scene sono di Hans Schavernoch. Da città dei cantori, a sede del delitto delle leggi razziali nonché del castigo successivo. Magnifiche le ampie proiezioni iperrealistiche di Thomas Reimer: sfondi con gru e palazzi che puntano verso il nuvoloso cielo del nord.

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Tutta la regia è piena di preziosi dettagli da cinema muto, specialmente negli scambi comici di Sachs con il rivale Beckmesser, che sembrano personaggi dei film di Lubitsch. Ma tra il divertimento delle gag e la sontuosità delle parate si intravvede una sottile malinconia, proprio accanto ai lillà incastrati tra le impalcature della chiesa in rovina. Merito è di Michael Volle, Hans Sachs profondo e sottile che commuove con una voce che potrebbe venire dal passato dei Maestri Cantori, come dal futuro più remoto. Da citare Beckmesser di Markus Werba, anche ottimo attore, oltre ai bravi Jacquelyn Wagner, Anna Lapkovskaja e Peter Sonn. Più incerta l’interpretazione di Walther di Michael Schade, da cui ci si poteva aspettare di più come Maestro dell’avvenire.

Teatro alla Scala – Richard Wagner Die Meistersinger Von Nürnberg  – Direttore Daniele Gatti – Regia di Harry Kupfer (repliche 23, 26, 30 marzo; 2, 5 aprile)

Immagini © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

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