Diario americano: quell’odore di tristezza

In diarioCult, Weekend

Le cose cambiano e la normalità ci sembra la cosa più bella: quando non c’era il virus e il lavoro sì, quando ognuno aveva la propria giornata di impegni dentro e furi casa. Quando l’incertezza non era la nostra costante compagnia

Sono seduta sul nostro terrazzino, sotto il nuovo ombrellone blu comprato ieri. L’anno scorso avevo preso un divanetto, due poltroncine e un tappeto per l’esterno tutto rosso e ho creato una specie di salotto esterno. La settimana scorsa qui a Cambridge ha ancora nevicato, e fino ad ora non siamo riusciti ad usare questa piccola appendice della nostra casa. Oggi invece, sì. Il sole splende, il vocio dei vicini crea un sottofondo cittadino che invece di disturbare, per una volta rassicura. Mi accendo una sigaretta e aspiro forte.

Se chiudo gli occhi per un istante e mi concentro sul sole caldo, sul vocio e sulla sigaretta, sembra quasi che il mondo sia normale. Come se la normalità fosse diventata ad un tratto la condizione più bella a cui aspirare. Dura poco. Sento la musica di Luca arrivare da dietro, che spezza questo attimo idilliaco. È dai primi di marzo che ascolta incessantemente i primi dieci secondi della stessa canzone: Waltz #2 di Elliot Smith. Una canzone che gli avevo fatto ascoltare perché mi piaceva moltissimo, e che adesso odio con ogni fibra del mio corpo “Milk! Milk!”, annuncia aprendo il frigorifero. Mi tocca alzarmi, per evitare l’ennesimo disastro con il latte dappertutto tranne che nel bicchiere, che deve essere rigorosamente blu, altrimenti Luca il latte non lo beve. L’autismo è davvero strana condizione, penso cercando di nascondere il poco latte rimasto nella bottiglia appena comprata.

Decido di lasciare il terrazzino e rientro. Dan è seduto sul divano in sala, davanti alla televisione. È stato licenziato già da dieci giorni e ancora mi stupisco di vedermelo in giro per casa, alle tre del pomeriggio, a imprecare contro Trump mentre guarda CNN. Dopo tredici anni di lavoro, ad alzarsi alle sei del mattino e tornare tardi la sera, a pensare a strategie, a concetti da proporre in riunione, a come affrontare l’ennesima crisi interna, una email mandata un martedì mattina alle dieci lo ha obbligato a smettere di colpo. Era talmente stufo dello stress del suo lavoro che si sente in qualche modo sollevato. Grazie alla sua liquidazione, saremo a posto per un po’, il tempo necessario per lui di disintossicarsi da tredici anni difficili e per capire quale sarà la prossima mossa da fare. Lo vedo sereno e cerco di esserlo anche io, ma in America perdere il lavoro significa molto più che perdere uno stipendio fisso. Significa, soprattutto, perdere l’assicurazione medica. E in un periodo di pandemia mondiale, la cosa mi preoccupa assai. È vero, Dan dice che dovremo pagare “solo” la metà (mille e cinquecento dollari al mese) perché il governo federale paga il resto, grazie a un programma che si chiama, stranamente, Cobra. Ma insomma, non è che proprio navighiamo nell’oro, e poi l’economia è in ginocchio e poi Dan ha 54 anni, e poi fa paura non sapere da che parte si finirà. 

Vado di sopra e busso alla porta della camera di Emma. “Come in!”, risponde quasi immediatamente. È in pigiama, sotto le coperte. Sta parlando con la sua migliore amica Ella, che abita a pochi isolati ma che non vede (se non su Facetime) da marzo. È pallida e ha le occhiaie. Mi fa un misto di tenerezza, pena e nervoso vederla così. Tenerezza perché è in trappola, come tutti noi, pena perché a tredici anni nessuno dovrebbe sentirsi in pericolo e rabbia, perché non ho strumenti per aiutarla. 

Mi siedo al bordo del letto. Le chiedo come va, voglio iniziare una chiacchiera.
“Scusa mamma, ma sono al telefono” 
“Ok, hai fatto i compiti?” 
“Sì, li ho finiti stamattina” 
“Brava”
“Ok. Chiudi la porta così i cani non entrano?” 
“Va bene, a dopo”

Sono sempre le stesse, le nostre conversazioni. Dai primi di marzo.
Torno fuori in terrazzino, per provare a ricreare quel momento di sembianza di normalità che però non c’è più. È cambiato tutto in così poco tempo: Luca non riceve più servizi e non va più al suo centro, Dan non ha più un lavoro, Emma e il suo entusiasmo per tutto si sono spenti come una candelina a fine compleanno. Sarà difficile ripartire, sarà difficile scoprire un nuovo modo di vivere, dopo questo tempo infinito ad aspettare che la gente smetta di morire e che il virus si stanchi di noi. Fiona, uno dei miei due cani, appoggia la sua testa sul mio ginocchio. “Non ti preoccupare, che andrà tutto bene”, le dico. Ma annusa i miei dubbi. Chiudo gli occhi e mi accendo un’altra sigaretta, per nascondere l’odore di tristezza nell’aria.