In “Creed”, ben scritto e diretto dal giovane Ryan Coogler, allena il figlio di Apollo, amico/rivale di un tempo. E per Sylvester i premi già fioccano
Ci sono icone che Hollywood proprio non riesce a lasciar andare. Forse per irrefrenabile nostalgia, o, più probabilmente, per senso degli affari e carenza di idee, ci si avvinghia con accanimento, spremendole fino all’ultima goccia. Non che alle icone poi dispiaccia (Star Wars – Il risveglio della forza docet): e non dispiace di certo all’ormai 70enne Sylvester Stallone, che, rispolverato dalla naftalina tra la serie di Expendables e questo nuovo Rocky, si assicura probabilmente una pensione più che dignitosa anche lontano da cazzotti e bazooka.
Creed, scritto e diretto dal giovanissimo, quasi esordiente Ryan Coogler, è il settimo capitolo nella 40ennale epopea del pugile operaio, morto e risorto e poi morto e risorto ancora. Tuttavia, più che di un seguito, sarebbe opportuno parlare di spin-off, o di reboot, o le due cose insieme. In un ideale e ben calibrato passaggio di consegne, l’obiettivo si sposta infatti dal caracollante e un po’ imbolsito “stallone italiano” al giovane Adonis Creed (Michael B. Jordan, la Torcia Umana del fallimentare Fantastic Four di Trank), figlio di quell’Apollo eterno rivale/amico di Balboa, che ha un futuro luminoso e un’eredità di cui portare il peso. E sarà proprio lo “zio” Rocky, nei quasi inediti panni di personal trainer e mentore, a guidarlo al successo come pugile, e alla maturazione come uomo, in una Philadelphia sempre uguale che sa di rimpatriata, celebre scalinata compresa.
Come i suoi illustri precedenti, anche questo ennesimo episodio della saga è un film senza sorprese: segue le orme del recente Southpaw di Antoine Fuqua, che a sua volta seguiva quelle tracciate proprio dalla premiata ditta Stallone&Co.: iniziazione, caduta e ritorno di un moderno guerriero dalle umili origini e dal passato burrascoso, legato alla famiglia e pronto alla redenzione dopo aver toccato il fondo.
Questo è però un film efficace, dove ogni cosa è al suo posto: buon equilibrio tra epica e humour, pathos e tensione quanto basta, scambi tra personaggi interessanti e non troppo banali (Tessa Thompson, moderna Adriana, è un character femminile di tutto rispetto), e in più di un momento può perfino scappare allo spettatore un sorriso sincero. Ha un’ottima colonna sonora, tutt’altro che scontata, e una trama lineare e senza scossoni che è a conti fatti un onesto mix di quanto visto fin qui. Con un finale abbastanza aperto (tanto che è già in cantiere un sequel, previsto nelle sale per la fine dell’anno prossimo), tale da sancire almeno in parte l’ideale cambio di testimone tra combattenti vecchi e nuovi.
Un cambio legittimo, ma non ancora e non per forza definitivo e totale. Già, perché se è vero che la nuova coppia maestro-allievo funziona e convince, a 40 anni dall’esordio all’angolo del ring, è ancora il vecchio Stallone-Balboa a sorreggere la scena e far la parte del leone: uno Stallone mai così acclamato in patria per la sua interpretazione, tanto da far incetta di premi e riconoscimenti da pubblico (sono 120 i milioni incassati finora dal film) e critica. Primo tra tutti quel Golden Globe come miglior attore non protagonista che è da sempre il viatico ideale alla conquista di statuette ancor più prestigiose. Proprio sul palco dei Golden Globe, un commosso Stallone non ha potuto far a meno di ringraziare per primo il suo alter ego in stivaletti e guantoni: perché anche le icone immortali hanno il diritto di invecchiare, specialmente se, come il buon vino, migliorano con l’età. Ma andarsene senza lottare, sullo schermo e non solo, quella è tutta un’altra storia.